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Cpr e hotspot in Albania, le immagini dei cantieri dal drone: dall’ex base militare al porticciolo trasformati per accogliere i migranti dall’Italia

Il Centro di permanenza e rimpatri per i naufraghi salvati nel Mediterraneo a Gjader, nel nord dell’Albania, sta per essere realizzato all’interno di un’ex base militare. Le immagini dall’alto mostrano, da varia angolazioni, l’ingresso del sito e lo spazio, a ridosso della montagna, dove sorgerà il Cpr. In funzione a livello strategico fino al crollo della dittatura comunista, nei primi anni ’90, è rimasta in servizio in forma ridotta fino a qualche anno fa; qui i giovani albanesi svolgevano il ‘servizio militare’. Tra un mese, o più, quest’area costellata di bunker di guardia (tipici manufatti in cemento armato) sperduta in mezzo alla campagna, tra i villaggi di Gjader appunto e Kakariq, ospiterà i richiedenti asilo che penseranno di essere in Italia, ma in realtà saranno altrove. Chiusi in un’area sigillata da un muro di protezione di sette metri eretto all’occorrenza, alloggiati dentro due strutture datate e in alcuni moduli posizionati dal nostro governo. Dove fino a oggi c’erano i resti della base a breve diventerà una sorta di prigione italiana esterna. L’area, infatti, oltre a un numero ancora indefinito di richiedenti asilo (si dice fino a un massimo di 3mila al mese per lo svolgimento delle pratiche, da qui l’assioma dei 36mila l’anno, ma qualcuno potrebbe stare fino a 18 mesi) dovrà contenere una serie di servizi, compresa un’area carceraria per chi commetterà reati, la struttura sanitaria e poi i compound per i funzionari, tutti rigidamente italiani. Secondo fonti albanesi, da noi interpellate, dovrebbero essere sistemate due vecchie sedi militari esistenti; una per i richiedenti asilo le cui domande verranno accettate da 880 posti, l’altra per chi, al contrario, dovrà essere rimpatriato, previo accordo con i Paesi d’origine, da 150 posti. E gli altri?

L’HOTSPOT, IL PORTO – Una ditta italiana ha iniziato a lavorare dalla settimana scorsa all’hotspot all’interno del minuscolo porto peschereccio di Shengjiin, località turistica frequentata in larga parte dai kosovari (la città di Prizren dista un’ora e mezzo da qui). Subito all’ingresso dello scalo, sulla sinistra, gli addetti hanno perimetrato l’area grande alcune centinaia di metri quadrati e piazzato il tabellone ufficiale del cantiere, con la data di inizio attività (manca però quella di fine lavori), autorizzazione, soggetto promotore, attuatore, stazione appaltante e le progettazioni e gli stemmi solenni dei due Paesi protagonisti dell’accordo, Italia e Albania. Lo scalo si trova nel punto estremo a nord della baia di Shengjin (San Giovanni Medua il suo nome in italiano), protetto da una collina piena di ville di lusso, tutte abusive. Al suo interno soltanto un pugno di pescherecci, tre navi in secca, vecchie strutture ai tempi in cui qui, in estate, arrivavano anche traghetti provenienti da Bari. Prima di solcare l’imbocco dell’area portuale le nostre motovedette cariche di naufraghi passeranno davanti ai due chilometri di spiaggia sabbiosa da giugno ad agosto zeppa di bagnanti all’ombra di strutture alberghiere a 5 Stelle e residence extra lusso. Le immagini dall’alto mostrano con chiarezza la parte di porto dove sorgerà il punto di accoglienza dei migranti, così come accade nei porti italiani; qui migliaia di persone verranno identificati, caricati a bordo di mezzi in partenza per il Cpr di Gjader, lontano 20km, passando attraverso il capoluogo della prefettura, Lezhe (Alessio in italiano). Solo un problema: a Shengjin c’è solo una strada a una corsia per senso di marcia e nei tre mesi estivi si intasa tutto.

La più importante base militare dell’Albania ai tempi della ‘Guerra fredda’, fino alla caduta del regime comunista, primi anni ’90, e al periodo cosiddetto di ‘Anarchia albanese’ del 1997, era in totale abbandono prima dell’accordo sui migranti tra Italia e Albania. Al suo apice in epoca di minaccia bellica, il cuore della base era dentro la montagna che la sovrasta dove venivano nascosti i caccia. La base si trova nel villaggio di Gjader, regione della Zadrima, a 15km dal capoluogo della prefettura, Lezha. Da Gjader atterravano e decollavano i velivoli militari e il segno tangibile di quel passato lontano sono le due piste di cui la base è dotata; strisce di asfalto, ormai ammalorato, a solcare una delle distese verdeggianti più grandi del Paese. Quando la potenza militare albanese si è estinta, le piste sono rimaste e negli ultimi vent’anni sono state usate per altri scopi, altrettanto poco nobili. Luogo ideale per far decollare piccoli aerei carichi di droga, sito perfetto per gli interessi delle bande del narcotraffico e della criminalità organizzata albanese, una delle più potenti al mondo come di recente confermato dal procuratore capo di Napoli, Nicola Gratteri. Successivamente, più di recente, le piste di Gjader venivano utilizzate dai locali per corse di auto con scommesse clandestine. Il gioco pericoloso è stato interrotto dalla polizia quando si è verificato un grave incidente in cui hanno perso la vita due giovani. Da qui il posizionamento di decine di blocchi di cemento lungo il tracciato. Oggi, collegato a esso, c’è quella che un tempo era la pista di rullaggio che conduce fino alla base, off limits e guardata a vista da guardie armate, ora strada aperta ai veicoli e spesso invasa da greggi di pecore.