E se fosse davvero Mario Draghi il successore di Ursula von der Leyen? Nei corridoi dell’Altiero Spinelli, a Bruxelles, se ne sente parlare da un po’, ma sottovoce. Nessuno lo dice con convinzione perché l’idea che l’ex presidente del Consiglio possa salire al vertice di Palazzo Berlaymont rischia di essere una suggestione dalla vita breve, strangolata nella culla dalle logiche politiche che guidano le nomine ai vertici delle istituzioni europee. Ma è bastato il suo discorso da curatore del report sulla competitività europea (incarico assegnatogli proprio dalla presidente della Commissione uscente), nel corso del quale ha parlato della necessità di un “cambiamento radicale” dell’Ue, per rompere l’argine degli endorsement.
ELOGI E SOSTEGNO – Tra i più sorprendenti, viste le posizioni oltranziste assunte costantemente nei confronti dell’establishment europeo di cui Draghi fa parte, anche come ex presidente della Banca Centrale Europea, c’è quello del primo ministro ungherese, Viktor Orbán. “Mi piace Draghi. Non so” se sarà presidente ma “è bravo”, ha detto a margine di un evento organizzato dai Conservatori al Parlamento europeo.
Più cerimonioso il plauso di colei che di un’ascesa di Draghi rischia di pagare il prezzo più alto, Ursula von der Leyen. La sua ricandidatura, sia nei numeri sia rispetto al programma del Partito Popolare Europeo, è apparsa da subito molto debole. Rimane lei la Spitzenkandidat del Ppe, ma come hanno precisato diversi europarlamentari popolari, anche pubblicamente, un conto è esprimere un candidato di punta, un altro è trovare l’appoggio sufficiente a nominarlo alla guida delle istituzioni Ue. E su von der Leyen i dubbi sono molti e provenienti da famiglie politiche e Paesi diversi. Così lei stessa non si è fatta troppi problemi a dichiarare che “Enrico Letta e Mario Draghi” hanno parlato “delle sfide per la nostra competitività e il mercato unico, i loro report ci mostreranno la strada per il futuro. Nei prossimi cinque anni dobbiamo confermare il primato della nostra Unione come luogo in cui vivere e fare affari”. Un primato che, secondo Draghi, passa però da cambiamenti radicali rispetto anche a ciò che è stato fatto negli ultimi cinque anni.
Ma tornando agli apprezzamenti, è arrivato anche quello di Sandro Gozi. Non un europarlamentare a caso dato che è stato eletto nella lista del presidente francese Emmanuel Macron: “Draghi conferma di essere una personalità in grado di svolgere qualsiasi ruolo apicale nell’Unione europea”, ha detto prima di puntualizzare una distanza tra le sue posizioni e quelle dell’ex presidente del Consiglio: “Per trasformare l’Europa, a differenza di Draghi, sono convinto che non devono esserci tabù. Per una riforma profonda é necessario anche avviare la revisione dei Trattati. Riformare l’Unione e il suo processo decisionale é infatti indispensabile per unificare il continente”. Su quella che sia, al di là di Gozi, la posizione di Macron si sa però ancora poco. Il presidente francese sarà certamente al centro delle contrattazioni, nonostante il pessimo risultato che otterrà alle urne in favore di Marine Le Pen. Questa sua debolezza difficilmente gli permetterà di mettere un suo uomo alla guida della Commissione e una figura come Draghi, come testimonia anche il forte sostegno dato dagli alleati di Italia Viva, potrebbe non dispiacere affatto all’Eliseo.
Proprio Matteo Renzi non usa mezzi termini per scaricare von der Leyen e spingere la candidatura dell’ex premier: “A Bruxelles serve un volto nuovo, basta con von der Leyen. Noi eleggeremo ragionevolmente 5 eurodeputati e io spero di avere un po’ di voce per dire che ci serve un signore in Europa, Mario Draghi, che è più bravo degli altri“.
D’altra parte, pure dal partito che traina il governo italiano, che non ha certo in Draghi un suo rappresentante, non arriva una chiusura. Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, è convinto che “sicuramente Draghi ha i titoli per ambire a ogni ruolo, ma sull’ipotesi concreta non so niente”. Mentre il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, prova in qualche modo a intestarsi la richiesta di cambiamento di Draghi, mostrandosi così d’accordo con la posizione dell’ex Bce: “Forse abbiamo convinto anche il presidente Draghi a cominciare ad assumere posizioni come quelle che ha tenuto, cioè la necessità di difendere l’impresa e la produzione in Europa, perché non viviamo più in un mondo nel quale le certezze che ci avevano accompagnato si sono confermate nel tempo – ha detto – Siamo ben contenti che anche personalità autorevoli che negli ultimi anni hanno avuto modo in Europa di avere un ruolo abbiano oggi la volontà di sottolineare quali sono stati gli errori del passato. Perché questi auspici del presidente Draghi sono una presa d’atto che bisogna cambiare e se bisogna cambiare significa che quello che è stato fatto prima non era corretto”.
L’OPZIONE DRAGHI – Pensare che basti qualche dichiarazione positiva e qualche elogio per spianare la strada all’ex premier è però pura utopia. La strada per il Berlaymont è tradizionalmente lunga, tortuosa e piena di trappole. Non a caso c’è chi sostiene che tutti questi elogi non siano altro che una corsa a bruciare la candidatura dell’italiano. Lasciando da parte le speculazioni, gli incroci necessari a far sì che Draghi possa ambire alla poltrona più prestigiosa della Commissione sono tanti. Innanzitutto si deve ricordare che la candidata di punta del primo partito europeo, ossia il Ppe, rimane Ursula von der Leyen. Per il secondo mandato l’ex ministra della Difesa tedesca ha abbandonato l’idea di correre per il ruolo di segretario generale della Nato che oggi vede in vantaggio l’olandese Mark Rutte. Quindi non abbandonerà facilmente l’idea di rimanere alla guida del Berlaymont.
Ma come avviene spesso quando si parla di nomine europee, basta un piccolo scossone per far saltare tutto il banco. E allora, nel caso in cui non si arrivasse a un’intesa sulla figura di von der Leyen, osteggiata anche da parte del suo partito, tutte le ipotesi tornerebbero in gioco. E alcuni fattori potrebbero favorire l’ascesa di un profilo come quello di Mario Draghi. Il primo: difficilmente la Germania potrà esprimere, a parte von der Leyen, un altro presidente di Commissione. A maggior ragione, è ancora più difficile immaginare che il governo socialista di Olaf Scholz possa proporre un candidato conservatore come Manfred Weber. Servirebbe un’enorme (e apparentemente ingiustificata) concessione da parte dei Popolari per far sì che da Berlino possa uscire un candidato socialista, data anche la debolezza del partito sia a livello nazionale che a livello europeo.
A questo punto la partita sarebbe aperta. Di alternative per il Berlaymont ne sono circolate poche, fino a oggi. Come detto, i macroniani sono deboli in patria e sembra complicato far passare il nome del commissario per il Mercato Interno e i Servizi, Thierry Breton, che spera nella nomina. Tenendo conto che, anche in questo caso, servirebbe il via libera del Ppe. Tra gli italiani c’è chi ha ipotizzato una “maggioranza Tajani” come figura di garanzia europea, ma è tutta da sondare la disponibilità del ministro degli Esteri di tornare a Bruxelles e abbandonare il proprio incarico alla Farnesina, rimanendo così lontano dalla politica italiana nonostante sia il leader di uno dei partiti della maggioranza. Oltre all’ipotesi di un nome dall’est Europa, c’è chi sostiene infine l’idea di un possibile candidato “debole” e di conseguenza facilmente gestibile dalle principali cancellerie europee. In questa descrizione, oltre alla stessa von der Leyen, rientrerebbe l’attuale presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola, abile in questi due anni e mezzo a far sfumare le critiche per certe sue posizioni sull’aborto emerse nei giorni della sua nomina e a riproporsi come figura moderata: Metsola, si apprende da ambienti a lei vicini, sembra però più orientata a trascorrere altri due anni e mezzo alla guida della Plenaria, dove una sua conferma appare scontata, preparando il campo alle successive elezioni a Malta come candidata premier. Inoltre, anche per lei si riproporrebbe lo stesso problema che ostacola Weber: la candidatura dovrebbe ricevere quantomeno l’appoggio del suo governo che, però, è a guida laburista.
A esprimere un nome per la guida della Commissione potrebbe essere quindi il governo italiano: Fratelli d’Italia, se tornasse intorno al 30% dei consensi, sarebbe uno dei partiti più rappresentati in tutta l’Eurocamera, alla guida di una famiglia, quella dei Conservatori europei, con la quale le forze popolari cercano un dialogo e che in Consiglio, se andrà in porto l’intesa con Orbán, occuperà due poltrone. Il problema è che FdI non ha nomi di spessore da proporre: già trovare un commissario al quale affidare una delega di spessore è impresa tutt’altro che semplice, figuriamoci per guidare il Berlaymont. È in questo scenario che una figura di garanzia come quella di Mario Draghi potrebbe ricavarsi il proprio spazio: nessun ostacolo da parte delle grandi cancellerie europee e un canale privilegiato per Roma per discutere i principali dossier che preoccupano l’esecutivo, Pnrr su tutti. Sarebbe però un’eccezione nella storia dell’Unione europea: non c’è mai stato, fino a oggi, un presidente di Commissione non politico.