Una risposta di Israele all’attacco iraniano arriverà. Non è ancora chiaro come e quando ma, stando almeno alle dichiarazioni del primo ministro di Tel Aviv, Benjamin Netanyahu, sarà “saggia e non di pancia”. È proprio quello che sperano un po’ tutti gli osservatori internazionali, a partire dagli Stati Uniti e dagli altri alleati dello ‘Stato ebraico’ che non vogliono un allargamento del conflitto a livello regionale: l’eventuale risposta armata di Israele deve compiere uno step in discesa nella scala della tensione tra i due Paesi rivali. D’altra parte Teheran lo ha detto subito dopo l’attacco: la sua azione militare è stata “condotta sulla base dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite relativo alla legittima difesa” e per gli ayatollah “la faccenda è chiusa qui“.
Se da una parte ci sono le dichiarazioni pubbliche che promettono fuoco e fiamme in caso di una nuova offensiva israeliana, dall’altra c’è la diplomazia, presente e molto attiva in queste ore anche se in maniera sotterranea. Così, oltre al capo dell’esercito Herzi Halevi che dà per certa una risposta e Teheran che, in quel caso, si dice pronta a “usare un’arma che non abbiamo mai usato”, ci sono le discussioni (ben due gabinetti di guerra in poche ore) a Tel Aviv su quale sia il modo migliore, altrettanto spettacolare ma senza superare linee rosse, per colpire la Repubblica Islamica.
Su questo la discussione, anche con l’alleato americano, è avviata e le opzioni sul tavolo sono diverse. L’ipotesi più accreditata al momento sembra essere quella presentata da quattro funzionari Usa alla Nbc, secondo la quale si assisterà a una risposta che si limiterà a colpire obiettivi mirati fuori dal territorio iraniano. Questo apre a uno scenario dalle diverse possibilità, dato che la Repubblica Islamica ha nella regione mediorientale numerose basi, membri del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione e, ovviamente, milizie armate sciite fedeli agli ayatollah. Fermandosi ai gruppi legati alla Repubblica Islamica, Israele avrebbe solo l’imbarazzo della scelta. Ci sono ovviamente i più importanti, gli Hezbollah libanesi, con i quali lo scontro va avanti dall’inizio della guerra a Gaza sul confine settentrionale dello ‘Stato ebraico’. Molto attivi in questi mesi sono quelli che da un po’ hanno scalato le gerarchie nella proxy war di Teheran: ossia gli Houthi yemeniti. Senza dimenticare che proprio in Siria e Iraq sono attivi gruppi che negli anni hanno sferrato numerosi attacchi nei confronti di ambasciate, basi o soldati americani e che, a loro volta, sono stati oggetto di raid condotti dagli eserciti di Washington e Tel Aviv. Tra queste c’è ad esempio l’irachena Kata’ib Hezbollah.
Ma il limite tra milizie fedeli a Teheran e inquadrati nelle forze di sicurezza della Repubblica Islamica, in questi Paesi, è sottile. Attaccando i centri di stoccaggio di armi, le basi, i ritrovi di miliziani è possibile arrivare anche a obiettivi ben più ambiziosi, possibili grazie alla folta rete d’intelligence di Israele in tutta l’area, compreso lo stesso Iran. Membri delle Guardie della Rivoluzione sono presenti stabilmente in Siria e Iraq, come rivelato anche dalla guerra contro lo Stato Islamico, mantengono contatti diretti con le milizie fedeli e quindi rappresentano un ghiotto obiettivo per i raid israeliani senza dover necessariamente mirare all’interno dei confini iraniani. Uno dei casi più eclatanti, oltre all’attacco israeliano al consolato iraniano di Damasco nel quale è stato ucciso il generale Mohammad Reza Zahedi, è certamente l’uccisione mirata, nel 2020, dell’ex capo delle Forze Quds, Qasem Soleimani, ad opera dell’esercito americano durante l’amministrazione Trump: un obiettivo di primo piano neutralizzato senza colpire il territorio dell’Iran.
In tutti questi casi, si rientrerebbe nell’ambito della risposta “saggia” promessa da Israele che eviterebbe con grande probabilità un’escalation regionale. Ma non si tratta delle uniche opzioni sul tavolo. C’è chi ipotizza che Israele potrebbe cogliere l’occasione per rispondere a sua volta con un’operazione in territorio iraniano. Non si tratterebbe della prima volta, come testimoniano gli assassinii eccellenti di scienziati coinvolti, ad esempio, nello sviluppo del nucleare iraniano. E proprio il processo di arricchimento dell’uranio della Repubblica Islamica potrebbe rappresentare un target ambizioso per Tel Aviv. Da stabilire, però, le modalità: se con un attacco armato tradizionale, un sabotaggio compiuto da eventuali infiltrati o un cyberattacco. L’ultima e più pericolosa alternativa, invece, è quella di un’offensiva armata alla luce del sole in territorio iraniano, contro obiettivi legati ai Guardiani della Rivoluzione o da individuare in grandi depositi di armi per indebolire le capacità offensive di Teheran. In entrambi i casi si tratterebbe di un altro attacco diretto tra le due potenze che andrebbe contro l’auspicata de-escalation e che rischierebbe, al contrario, di scatenare una guerra regionale. Il ruolo dei Paesi alleati e mediatori, dagli Stati Uniti fino alle monarchie del Golfo, sarà fondamentale. Così come le prospettive politiche di Netanyahu: riportare la tensione sotto il livello di allerta, come prevede ad esempio l’ex direttore della Cia David H. Petraeus, o, in nome della salvaguardia del proprio potere, rischiare una definitiva e pericolosa escalation?