Un effetto l’attacco iraniano a Israele sicuramente l’ha avuto. Quello di accelerare il voto della Camera Usa sul pacchetto di aiuti militari che il Senato ha già approvato e che proprio i repubblicani della Camera si sono sempre rifiutati di considerare. Il voto, ha spiegato lo speaker della Camera Mike Johnson, dovrebbe essere imminente, entro il prossimo fine settimana. L’esito è però tutt’altro che scontato. Joe Biden punta all’approvazione completa del provvedimento, così da portare a casa una sudata vittoria sul sostegno militare a Kiev, osteggiato da mesi dalla controparte del Grand Old Party, ma la proposta di Johnson, presentata nella serata di lunedì, potrebbe sollevare sia l’opposizione democratica che quella repubblicana.

Johnson ha infatti scelto una strada diversa rispetto a quella seguita dal Senato, che a febbraio ha fatto passare un pacchetto di aiuti da 95 miliardi di dollari complessivi per Ucraina, Israele e Taiwan. Lo speaker della Camera pensa di portare in aula la misura per un dibattito unico, ma poi spacchettarla in almeno tre voti distinti, uno per ogni capitolo di spesa. In questo modo, Johnson spera di superare l’opposizione di settori dei repubblicani che in questi mesi si sono sempre opposti ai fondi all’Ucraina ma che sono disponibili ad approvare quelli per la sicurezza di Israele. Uno smacco, però, per il presidente che così dovrebbe giustificare l’ok alle forniture per un Paese che da mesi sta conducendo una sanguinosa campagna militare nella Striscia di Gaza, che egli stesso sta cercando di arginare anche se con scarso vigore, e, allo stesso tempo, il ‘no’ agli aiuti a un Paese invaso.

La questione degli aiuti militari si è infatti ormai trasformata in un puzzle difficile da comporre. I democratici, come chiede Biden, sono disponibili ad accorpare i finanziamenti per l’Ucraina a quelli per Israele. La destra repubblicana è a favore degli aiuti a Israele, ma si oppone strenuamente a quelli per Kiev. Per cercare di conquistare il sostegno dei più conservatori, Biden ha proposto di inserire nel pacchetto misure per potenziare la sicurezza al confine con il Messico: misure che i repubblicani chiedevano da tempo. A questo punto si è però messo di mezzo Donald Trump che vuole usare la crisi alla frontiera come tema di campagna elettorale e che non ha dunque alcun interesse a limitare il numero di migranti in arrivo.

In mezzo allo scontro si è trovato, alla fine, proprio Mike Johnson, lo speaker della Camera, un conservatore della Louisiana vicino ai gruppi dei cristiani più fondamentalisti, da sempre alleato fedele di Trump, che nel passato si è più volte dichiarato contrario a nuovi finanziamenti militari per l’Ucraina. Johnson è diventato speaker proprio grazie ai voti della destra e con la benedizione dell’ex presidente. Poi, da presidente della Camera, ha reiterato la sua opposizione ai fondi e si è più volte opposto a portare la legge in aula. Alla fine ha però dovuto cedere. Troppo forti le pressioni esercitate su di lui dalla Casa Bianca, dai repubblicani più vicini alle tradizionali posizioni atlantiche, dal complesso militare-industriale, dalla diplomazia USA preoccupata per la leadership globale degli Stati Uniti, soprattutto nel rapporto con gli alleati europei.

Johnson sembrava aver dunque capitolato ed essersi piegato alle necessità della realpolitik USA. Aveva però parlato di “importanti innovazioni” rispetto al testo votato dal Senato. In particolare, pensava ai soldi a Kiev come forma di prestito e non più come finanziamento a fondo perduto. In secondo luogo, almeno parte di quel denaro avrebbe dovuto essere raccolto attraverso i beni russi sequestrati grazie al “Rebuilding Economic Prosperity and Opportunity for Ukrainians Act”. Per cercare sostegno sul progetto, la settimana scorsa si era anche recato in pellegrinaggio da Trump. L’ex presidente, aveva detto Johnson, si era detto “favorevole alla clausola del prestito”, dando una sorta di via libera al voto dei suoi alla Camera.

Nelle ultime ore è arrivata l’ulteriore novità e cioè lo spacchettamento della proposta di finanziamenti militari. L’obiettivo di Johnson è chiaro: far passare i fondi per la sicurezza a Israele, lasciando quelli per l’Ucraina alle singole scelte dei deputati del suo partito. Una mossa per evitare il conflitto interno con Marjorie Taylor Greene, la deputata della Georgia e trumpiana di ferro, che aveva più volte annunciato di essere pronta a far votare una mozione di sfiducia nei confronti dello speaker se questo avesse portato al voto in aula i fondi per le armi all’Ucraina. Diversi deputati del Gop si erano detti pronti a votare la mozione. Spacchettando la misura, Johnson spera di aggirare la minaccia e salvare il suo posto. Dà ai repubblicani la possibilità di votare per la sicurezza di Gerusalemme e, eventualmente, di non votare per quella di Kiev. Una mossa che raggiungerebbe lo scopo di mettere ancor più in difficoltà l’amministrazione che a quel punto si ritroverebbe senza elementi per puntare a sbloccare l’invio di armi a Volodymyr Zelensky.

Rimane comunque un piano che rischia di scontarsi sia con parte dei repubblicani sia con i democratici. Michael McCaul, deputato repubblicano del Texas e chairman della Commissione Esteri della Camera, arriva involontariamente in soccorso di Biden spiegando che non è possibile scindere le due questioni: “I due conflitti sono legati. Quello che è successo l’altra notte in Israele succede ogni notte in Ucraina”, ha detto McCaul. Quanto a Joe Biden e ai democratici, si sono sempre espressi contro il tentativo di scorporare le questioni. Si deve poi tenere presente un elemento ulteriore. Anche se Johnson riuscisse nel suo tentativo di organizzare tre voti diversi alla Camera – e la cosa è per l’appunto piuttosto improbabile – la sua proposta verrebbe sicuramente rigettata dal Senato a maggioranza democratica. Insomma, lo scontro sui finanziamenti militari, al Congresso USA, continua. Se possibile, si complica.

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