L'INCHIESTA DI FQ MILLENNIUM - Il regime di Putin è scettico sull'origine umana del riscaldamento globale, ma spera di avvanteggiarsene, per esempio con una Siberia più fertile e trivellabile. E se l'Occidente nemico subirà catastrofi, il vantaggio sarà doppio. Intanto Wwf e Greenpeace sono stati espulsi dal Paese e gli ambientalisti sono arrestati, perseguitati, esiliati
Per molti anni, in Russia, il problema del cambiamento climatico è stato abbastanza ignorato. Vladimir Putin sosteneva che “nessuno conosce le cause del riscaldamento globale” e screditava l’energia rinnovabile appoggiato dal principale istituto scientifico, l’Accademia russa delle scienze, che consigliava al presidente di non ratificare l’accordo di Parigi viste le “incertezze nelle stime del cambiamento climatico”. C’erano buone ragioni per assumere tale posizione. L’economia del Paese più grande del mondo è, infatti, interamente basata sullo sfruttamento delle proprie risorse naturali, sull’estrazione di petrolio, gas e metalli, sul taglio dei boschi per il legname, sulla pesca industriale. In tali condizioni, salvaguardare la natura o abbandonare i combustibili fossili sembra un lusso insostenibile.
C’è anche chi pensa che la Russia potrebbe beneficiare del cambiamento climatico: il riscaldamento globale sta liberando vaste aree della piattaforma artica con tutta la sua ricchezza mineraria, aprendo nuove rotte marittime per il commercio, mentre lo scioglimento del permafrost in Siberia sta facilitando le attività estrattive. Non sorprende, dunque, la posizione ufficiale assunta dalle autorità di Mosca per cui la globale transizione verde non è altro che un “banale tentativo dell’Occidente di frenare lo sviluppo dell’economia russa”, nonostante le speranze che scienziati e attivisti avevano riposto nel convincere le istituzioni che il cambiamento climatico sia una reale minaccia alla economia dello Stato. A cominciare dallo stesso degrado del permafrost, che copre più della metà del territorio: il disgelo del suolo mette in pericolo le fondamenta di case, strade, impianti industriali, riduce la produzione di petrolio e gas di un terzo e, secondo calcoli precisi, provoca danni per diversi trilioni di rubli.
Nemici del popolo – Nel 2022 però è iniziata la guerra in Ucraina. Le autorità hanno avuto altro di cui occuparsi e i gruppi industriali hanno colto l’occasione per sbarazzarsi degli ambientalisti, ritenendo che il conflitto non rappresentasse il momento giusto per ostacolare lo sviluppo industriale del Paese con la regolamentazione ambientale. «Dicono in TV che sono macchinazioni dell’Occidente. Ma penso che loro stessi non ci credano», dice Kirill (il nome è cambiato su sua richiesta), ex direttore di uno dei programmi di Greenpeace Russia. La filiale locale dell’organizzazione ha dovuto chiudere a maggio 2022: come molte altre iniziative ecologiste, è stata accusata di ostacolare progetti infrastrutturali ed energetici vantaggiosi per il Paese.
La pressione sugli ambientalisti è iniziata nel primo anno di guerra, con la persecuzione di piccole associazioni regionali, la maggior parte additate come agenti stranieri. In Russia, questo status, analogo allo stigma sovietico di “nemico del popolo”, viene rivolto ormai da dieci anni a organizzazioni e persone che si oppongono al regime: giornalisti, politici e attivisti per i diritti umani. Il cui lavoro viene infatti ritenuto “pagato dall’Occidente”. Dopo le piccole Ong ambientaliste, il Cremlino ha attaccato la Fondazione Bellona, il WWF e Greenpeace dichiarandole organizzazioni “indesiderabili”, rappresentanti di una “minaccia per le fondamenta dell’ordine costituzionale e la sicurezza dello Stato”.
Da quel momento, l’attività di tali istituzioni è illegale e la collaborazione con esse (persino condividere i loro post sui social) è un reato penale che può portare alla reclusione fino a sei anni. Secondo la versione della Procura, dall’inizio della guerra, queste organizzazioni, con il pretesto di preoccuparsi per l’ambiente, si sono spese nella “propaganda anti-russa” e nella “destabilizzazione della situazione socio-politica” e hanno persino cercato di “cambiare regime”. Così, il WWF, sempre secondo le autorità, avrebbe raccolto segretamente informazioni sulla situazione ambientale e sull’industria in Russia, e avrebbe anche ostacolato i progetti per lo sviluppo dell’Artico.
La trappola della guerra – La filiale del WWF non ha commentato, ma ufficialmente ha interrotto il legame con il World Wide Fund for Nature International per lavorare in Russia sotto altro nome. A sua volta, Greenpeace Russia, accusata di aver tentato di “intervenire negli affari interni” del Paese e di “minarne le fondamenta economiche”, ha chiuso i battenti con tutti i suoi progetti. «Abbiamo interferito con molte persone che volevano costruire nelle aree protette», ricorda Kirill. Greenpeace Russia ha ripetutamente denunciato il governo russo, e più volte ha vinto: molti angoli della Siberia, Altai, Kamchatka, lago Baikal sono rimasti intatti grazie a lei.
Un anno fa, però, è stato presentato in Parlamento un progetto di legge che consentiva il disboscamento vicino alle sponde del Bajkal, riconosciuto come patrimonio mondiale dall’Unesco. Greenpeace si è opposta e allora uno dei firmatari della legge ha suggerito di dichiarare l’organizzazione indesiderabile. Tolto l’ostacolo, i deputati hanno provveduto a legalizzare il disboscamento.
«Il regime di Putin si basa sulla distruzione della natura e sulla vendita delle risorse naturali ad altri Paesi. Ecco perché sta perseguendo una politica estera così aggressiva», afferma Arshak Makichyan, attivista per il clima e l’ambiente che aveva organizzato in Russia azioni del movimento climatico Fridays for Future e aveva parlato alle Nazioni Unite insieme a Greta Thunberg. Con l’inizio dell’invasione dell’Ucraina, ha unito all’attivismo climatico quello pacifista. «Tutto il primo mese ho protestato contro la guerra, ma poi me ne sono andato perché la Russia si è trasformata in dittatura, e gli strumenti di protesta pacifica non erano più efficaci», racconta Makichyan.
Arresti e torture – Secondo le stime del Russian Ecological Crisis Group, solo nei primi cinque mesi del 2023, più di 70 attivisti ambientalisti sono stati aggrediti, arrestati, perseguiti amministrativamente e penalmente. Per alcuni sono bastate perquisizioni e minacce, ma per Arshak Makichyan lo Stato è andato oltre privandolo della cittadinanza, insieme con il padre e i due fratelli. Il motivo ufficiale? Vent’anni fa la famiglia Makichyan, fuggita in Russia dalla guerra in Armenia, avrebbe fornito informazioni “deliberatamente false” riguardo alla cittadinanza, ma i documenti contengono accuse contradditorie.
Arshak per ora vive a Berlino con un visto ricevuto grazie al passaporto russo, ormai non più valido. «Non posso uscire dall’Unione europea, non posso comprare un biglietto aereo. Per questo motivo, non posso partecipare alle conferenze sul clima e in generale impegnarmi in un vero e proprio attivismo».
Anche se adesso sarebbe il momento: a causa della guerra, la situazione economica in Russia sta peggiorando e funzionari regionali e uomini d’affari stanno distruggendo l’ambiente in modo sempre più aggressivo. Dopo lo scoppio della guerra, le teorie del complotto secondo cui l’Occidente soffoca lo sviluppo economico della Russia attraverso movimenti “verdi” hanno raggiunto il culmine. Ora si scopre che la “teoria” del cambiamento climatico è uno strumento “nella guerra informatica-psicologica contro la Russia”. Il geofisico Leopold Lobkovsky dall’Istituto di oceanologia dell’Accademia russa delle scienze ha infatti avanzato la teoria secondo cui il riscaldamento globale non è dovuto all’attività umana, ma a una serie di terremoti verificatasi negli anni ’50-60 tra l’Alaska e la Kamchatka. L’accademico ritiene che la teoria condivisa dalla comunità scientifica sia stata inventata solo per favorire “un nuovo ordine mondiale”, in cui i Paesi occidentali “stabiliranno le proprie regole del gioco giustificandole con clima”. La teoria è stata immediatamente ripresa e diffusa dalla propaganda russa.
New york? Che vada sott’acqua – In generale però, i “patrioti” pro-guerra non sono molto interessati se l’umanità, i terremoti o le fluttuazioni nell’orbita terrestre siano responsabili del cambiamento climatico. Che, nel momento in cui la Russia sta affrontando l’“Occidente collettivo” potrebbe rivelarsi un prezioso alleato. Così la pensa il filosofo Alexander Dugin, il principale ideologo dei nazionalisti di estrema destra. Siccome Londra, New York e altri “centri dell’atlantismo” si trovano sulla costa, saranno allagati per primi per lo scioglimento dei ghiacci e l’innalzamento del livello del mare: c’è da fregarsi le mani. La “roccaforte dell’oligarchia liberale globale” sarà “spazzata via dalla faccia della terra”.
In più, il riscaldamento trasformerà le regioni fredde dell’Eurasia in “oasi fertili”. Di fronte a un Occidente collettivo ostile, Dugin invita a un attacco “a tutti i livelli e in tutte le sfere”: “Se l’Occidente considera il riscaldamento globale una minaccia, allora per noi è un alleato”. Di fronte a tali ideologie, «il movimento ambientalista in Russia deve cambiare, deve radicalizzarsi», commenta Makichyan. «E lo sta già facendo perché i metodi legali di protesta non funzionano più. Ora sto lavorando per creare un movimento ecologico anti-guerra. In Europa è molto più facile farlo. Sarebbe fantastico se il Vecchio continente creasse maggiori opportunità per gli attivisti anti-guerra e gli eco-attivisti per aiutare i russi stessi a spingere per il cambiamento nel loro Paese».
L’articolo è stato pubblicato su FQ MillenniuM n. 75 di Febbraio 2024