Dieci anni di solitudine senza Gabo. Quattro senza Luis Sepulveda e un altro paio di decenni senza Jorge Amado. La triste ricorrenza della scomparsa dello scrittore colombiano Garcia Marquez, che cade proprio in queste ore, è stata oltretutto rimarcata da una pubblicazione postuma che Gabo aveva gettato con sdegno nel cestino e che i due suoi figlioli hanno recuperato e incollato pezzetto per pezzetto. Così se le royalties mancanti premono a casa Marquez, a noi pesa la mancanza dell’autore di Cent’anni di solitudine. E di tutto quello che hanno rappresentato simbolicamente e politicamente le truppe sparse del realismo magico nella letteratura del Centro e Sud America.

Ci vorrebbe Gianni Minà per riannodare qualche filo di senso e della storia. Per rammentare agli europei razionali e positivisti che dall’altro lato del globo, nelle storie di Gabo, di Sepulveda, di Amado, di Guimaraes Rosa, la magia fluttuante, conturbante e ammaliante dei loro scritti andava paradossalmente e gradualmente ad ottundere, agli occhi e nelle anime dei corrucciati esistenzialisti, strutturalisti o più banalmente alla nuova borghesia progressista letteraria post ‘68, tutta quella realtà, quella polvere e quel sangue, quegli amori e quell’ordinarietà di popolo, che sembrava come finire sempre un passo indietro rispetto al tocco magico. Potenza dello stile e della libertà espressiva.

Quel vuoto oggi, e da almeno un paio di decenni, è incolmabile. E non si tratta di fazzoletti per asciugarsi le lacrime, ma di romanzi non più letti, scomparsi, invisibili. Chi sostituisce chi? Chi subentra a chi? Certo, anche in Italia di Italo Calvino e Dino Buzzati non ne sono più comparsi (anche se il legame magia-realismo in loro è stato più marmoreo e meno empatico). Probabilmente, poi, il ragionamento andrebbe ampliato e scandagliato accademicamente. Qui invece preme più l’urgenza di un’intuizione, della mancanza oggettiva di un approccio popolare e politico alla scrittura che si fa ogni giorno più bruciante ed evidente.

Ogni corrente letteraria è figlia di un’epoca storica. Concluso il Novecento, frantumato pezzo per pezzo il sogno rivoluzionario latinoamericano, quella scintilla creativa non frigge più. E a noi tocca il vuoto, il nulla, anzi peggio: il ricordo. Pleonastico, retorico, patetico. Impauriti dallo sfiorare il pane e i denti mancanti delle masse villiche e insudiciate, incapaci di essere sedotti da sussurranti malie senza ricorrere a un rigoroso debunking sul web, ridotti a macchiette adoranti dei potenti più vili e venduti, riusciremmo a trasformare Macondo in una città green con differenziata porta a porta e videocamere per controllare chiunque.

E un giorno o l’altro dovremmo guardarci allo specchio per dirci: Gabriel Garcia Marquez, e compagnia scrivente, non ce li meritiamo più.

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