Libri e Arte

“Dottoressa, la varicella esce di sera o di mattina?”: le paranoie incredibili dei genitori moderni nel “diario dal fronte” della pediatra di Paola Di Turi

FqMagazine pubblica in esclusiva la prefazione integrale di “Dottoressa, la varicella esce di sera o di mattina? Disavventure tragicomiche di una pediatra” a cura di Silvia Truzzi e un estratto in anteprima

di F. Q.

“Dottoressa, sono la mamma di Ricky, ci siamo appena svegliati e ha un puntino sul gomito. Glielo porto?”, “Dottoressa, perché mio figlio fa le puzze?” “Dottoressa, sono la nonna di Antonio, volevo dirle che voglio un certificato che attesti che può bere solo acqua in bottiglia”. “Dottoressa mi scusi, mio figlio Marco ha mangiato un maccherone leggermente crudo, c’è la probabilità che si ammali?”. Sono solo alcune delle domande, dei dubbi (qualcuno direbbe delle “paranoie”) di molti di noi genitori moderni, presi dalla paura di sbagliare tutto nel compito non facile di stare accanto ai nostri figli. Queste e altre “perle” le potrete leggere in “Dottoressa, la varicella esce di sera o di mattina? Disavventure tragicomiche di una pediatra” di Paola Di Turi, in uscita il 17 aprile per Compagnia editoriale Aliberti, con la prefazione di Silvia Truzzi.

In questo esilarante “diario dal fronte”, che poi è un ambulatorio pediatrico alle porte di Bologna, la dottoressa Paola condivide con i genitori le loro ansie davanti a un compito che sembra essere diventato superiore alle capacità dei più. Eppure quello del genitore è un mestiere vecchio come il mondo: come far passare alle mamme apprensive, ai papà che si sentono incapaci, ai nonni troppo presenti il terrore di sbagliare tutto? Un libro non solo da ridere ma che offre molte risposte, per imparare dalle paure, dagli errori e dai tanti dubbi che affliggono le mamme e i papà, per affrontare il magnifico viaggio della maternità e della paternità con più leggerezza (e, forse, meno telefonate alla pediatra).

Qui di seguito pubblichiamo la prefazione integrale di Silvia Truzzi:

Questo libro l’ho visto nascere. Anzi, potrei dire di esserne in un certo senso la levatrice. Per molti anni ho ascoltato dall’altro capo di un telefono tutte le storie che state per leggere: si dà il caso che l’autrice sia la mia migliore amica e alle amiche si raccontano le delusioni e le gioie, i successi e le liti con i figli, ma anche i giorni difficili al lavoro. Già prima che queste pagine vedessero la luce, avevo una personale classifica delle domande migliori da cui Paola viene investita (non c’è un altro verbo) quotidianamente: Giada non sente la puzza delle sue ascelle, preceduta solo dalla richiesta del “protocollo per non ammalarsi” durante le vacanze, e seguita a breve distanza dai peti dal sen fuggiti di Fabio. Un giorno però la nostra abituale chiacchierata ha preso una piega diversa: quello di Paola non era il solito sfogo scanzonato e amaro. Mi ha fatto un discorso serissimo su tutto quello che secondo lei stava dietro le ansie che fanno sragionare le mamme e i papà nel suo ambulatorio: la paura di sbagliare, l’incapacità di prendersi la responsabilità di scelte anche minime, la difficoltà di essere adulti e dunque genitori. Quel giorno è stato concepito questo libro, che è sì molto divertente ma per nulla superficiale: dietro ogni domanda c’è tutta la fragilità contemporanea, figlia anche di un allentamento dei legami con la natura. L’istinto materno non è una generica propensione al fare figli, è anche l’ancestrale conoscenza della pratica dei bambini. Come si prende in braccio un neonato è una cosa che sappiamo anche senza vedere un tutorial su Instagram, altrimenti ci saremmo estinti da quel dì. Eppure non c’è uno tra i miei amici che, di ritorno dall’ospedale con il pargolo addormentato nell’ovetto sul sedile posteriore, non si sia fatto prendere dal panico: e adesso? Un’amica napoletana – sempre nel tragitto tra il reparto maternità e casa – si è sentita rivolgere dal compagno questa domanda: «Ma davvero l’hanno dato a noi?» Scherzava? Sì, ma il dubbio che si celava dietro la battuta era autentico: «Saremo all’altezza di un compito così arduo?»
Dalle conversazioni con Paola mi sono fatta l’idea che dietro questa “disfunzionalità genitoriale” ci siano diverse ragioni concomitanti. Un tempo le famiglie erano numerose e socievoli, ti capitava spesso di avere a che fare con fratellini o cuginetti più piccoli e di vederli crescere. Cioè di osservare in presa diretta come si faceva il bagnetto a un neonato o cosa mangiavano i bambini dopo lo svezzamento; capitava di vedere milioni di cadute dalla bici appena privata delle rotelle, generatrici di milioni di pianti e altrettante sbucciature di ginocchia senza che questo abbia mai spostato l’asse terrestre. Ai più era chiaro che, salvo rari casi, i graffi causati dalla caduta non necessitavano delle cure di un premio Nobel per la medicina e che la caduta in sé, più che essere la spia di un morbo nascosto, era parte di un fisiologico processo di apprendimento. Ai genitori di oggi forse manca questo imprinting, anche perché siamo sempre più una società di figli unici. E attenzione: “unico” non vuol dire soltanto senza fratelli, vuol dire anche eccezionale, come sembra ogni genitore si attenda che la propria progenie sia. Le mamme e i papà che tra poco incontrerete paiono etologi dei propri figli: li osservano, li studiano, li sezionano al microscopio cercando tracce di malattie o segni di misteriosi influssi sui loro corpi. Se sono stanchi avranno bisogno di integratori (e non magari di avere un’agenda più libera di quella di un capo di Stato), ma anche se sono molto attivi o se un giorno sono più vivaci del solito, qualcosa che non va bisogna che ci sia. Se compare un minuscolo puntino rosso su un gomito è cosa da non trascurare: telefoniamo alla dottoressa e magari mandiamole anche una foto su WhatsApp. La necessità di avere un controllo militare sui figli sembra dipendere per alcuni versi dall’impossibilità di accettare imprevisti nella pianificazione della vita degli adulti. Forse hanno tolto anche l’omonima casella dal Monopoli, sta di fatto che il caso (il protocollo per non ammalarsi!) non è più considerato una variabile nelle nostre esistenze iper programmate (o come dicono quelli che parlano – e dunque vivono – male schedulate).
Dietro l’implosione di mamme e papà ci sono mille altre validissime ragioni che vengono ben analizzate in questo diario, di cui voglio testimoniare l’assoluta autenticità: l’unica accortezza è stata rendere irriconoscibili genitori e bimbi per ovvie ragioni, ma tutto quello che qui è scritto è vero (anche se sembra del tutto inverosimile). Vedrete però che la luce che illumina le pagine a venire è un profondo senso d’amore. Nella Bibbia si dice che chi trova un amico trova un tesoro ma, come si capirà, vale anche per i pediatri.
Da ultimo, un piccolo ma doveroso cenno personale. Paola me l’ha mandata un angelo custode di nome Marco, un amico comune, nel momento più di merda della mia esistenza. Le telefonò per chiederle di invitarmi a cena: mi ero trasferita per lavoro a Bologna da poco, non conoscevo nessuno e me la passavo piuttosto male. Era il 2007. Lo ricordo benissimo anche perché da Paola ho appreso le nozioni fondamentali dell’amicizia, in particolare dell’amicizia tra donne, di quella sorellanza che è fatta di comprensione, solidarietà, attenzione e complicità. È lei che mi ha insegnato a fidarmi, a non avere paura, ad accogliere gli altri senza riserve. È lei che, con un’apparente ruvidezza sempre alternata alla dolcezza, mi ha aiutato a superare tutti gli snodi più critici, a ridimensionare le inquietudini, a fare delle debolezze una forza. Questa capacità maieutica ce l’ha anche come medico: non lo deduco, lo so per esperienza personale. Non credo di averle restituito nemmeno la metà di quello che mi ha dato, anche se ho cercato di non farla mai sentire sola nei momenti in cui sentivo che aveva bisogno di me. L’ha scritto bene Balzac, nelle Illusioni perdute: «Ciò che rende indissolubili le amicizie e ne raddoppia l’incanto è un sentimento che manca all’amore: la sicurezza».
Le “bambine”, che in questo libro sono giovani donne, erano davvero bambine (di sette e quattro anni) quando per la prima volta ho varcato la soglia di casa di Paola. Sono rimasta strabiliata dalla loro educazione e anche dal fatto che alle nove, “pigiamate” di loro propria iniziativa e già con i denti lavati, se ne sono andate a letto spontaneamente senza fare un fiato o un capriccio. Con l’aria vagamente sofferente per dover abbandonare la misteriosa vita degli adulti ma con la rassegnata certezza che il letto era destinazione ineluttabile, impossibile da rimandare anche di cinque minuti. Non senza ingenuità, chiesi a Paola e Marcello – una pediatra e un chirurgo pediatrico – come facevano ad avere due figlie così disciplinate e loro mi dissero che era il minimo: se alla loro età non riusciamo a imporre l’ora giusta per dormire, tra dieci anni ci ritroveremo fuori di casa! Da quella prima sera, ci sono state mille altre cene e sono successe molte cose. Ho cambiato due volte città, ma ho seguito a distanza (una distanza ravvicinata) la crescita delle bambine. Io di figli non ne ho avuti: nella vita gli incontri sono importanti e il tempismo è tutto. Non è successo e non ho timore di dire che non è stato un dramma. Però ho discusso della mia mancata maternità con Paola per un numero incalcolabile di ore, abusando della sua pazienza che, come capirete tra poco, è pressoché inesauribile. Una volta – ricordo ancora dov’ero e perfino com’ero vestita – mi ha preso in contropiede dicendomi, scherzando ma fino a un certo punto: «Non sei biologicamente predisposta: a quarant’anni suonati hai ancora il fabbisogno di sonno di un’adolescente di sedici. Lascia stare, non è cosa per te. Mica siamo fatti tutti con lo stampino: gioisci di quello che hai e non concentrarti su quello che non hai». Forse doveva fare la psicologa, o forse lo è diventata rispondendo alle telefonate che state per leggere…

L’ESTRATTO IN ESCLUSIVA

La dittatura dei bambini
«Dottoressa buongiorno, scusi se sono venuta senza appuntamento. Faccio prestissimo. Le volevo chiedere: Miriam, quando le do l’acqua con la bottiglia si soffoca e le viene la tosse, quando gliela do col bicchiere no. Cosa dice, posso dargliela col bicchiere?»
«Il bambino è il padre dell’uomo», diceva Maria Montessori, ma non aveva considerato che intorno a lui girano anche una mamma, un papà, quattro nonni, una baby-sitter, le maestre, e – la parte che mi riguarda direttamente – la pediatra, che sarei io. Tutti costantemente concentrati su questo miracolo incarnato, quasi che potesse svanire nel nulla senza la loro ininterrotta attenzione a ogni minima variazione di respiro.
Questa è, dunque, la mia personale storia di resistenza in mezzo a tutti loro.
Nella filosofia confuciana, la gioia, diversamente dalla felicità, si fonda sull’essenza della persona che con robusta perseveranza si oppone alle circostanze rendendole trascurabili, nonostante esse siano, spesso, avverse.
Ma caro Confucio, per superare la mia faticosa quotidianità, la perseveranza non basta, servono anche tanta pazienza e un’enorme creatività. E magari il mio obiettivo fosse la gioia!
Macché, è piuttosto la sopravvivenza, l’ironia come salvagente.
«Sì, signora, può usare il bicchiere. Di cristallo di Boemia però. Le consiglio di prendere un servizio da ventiquattro, considerato che Miriam ha sei mesi, potrebbe capitarle che ne rompa qualcuno…»

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