“Ne dicano ciò che vogliono i terrestri, tu, divino, non più tu, gli dèi (è plurale, il termine divino) t’hanno prescelto, gli dèi t’hanno suonato, in doppio senso: bastonato il tuo corpo e fatto musica, t’hanno sottratto agli infiniti ruoli del quotidiano identico, dentro e fuor di scena, t’hanno restituito.., sì! Sì! Sì, gli dèi!, alla favola, al mito ch’era tuo, nella notte dei tempi, t’hanno scuoiato d’ogni simulazione d’accatto, d’ogni finzione…”: così Carmelo Bene, da par suo, celebrava, in Quattro momenti su Tutto il Nulla, il genio di Vincenzo Bellini.
Al Teatro Costanzi, Teatro dell’Opera di Roma, è stata in scena, dal 9 al 17 aprile, La sonnambula, melodramma in due atti su libretto di Felice Romani, il cui debutto risale al 1831, al Teatro Carcano di Milano, opera che, al pari de I puritani e di Norma, è considerata tra le vette dell’arte belliniana. Come scrive Mario Leone nell’introduzione alla sua conversazione con il direttore Francesco Lanzillotta (efficace ed elegante la sua resa) raccolta nel sempre ben curato libretto di sala Sconfinamenti: “Con La sonnambula, settimo titolo del catalogo di Vincenzo Bellini, il compositore catanese entra di diritto in quel Parnaso degli operisti italiani capaci di determinare gli elementi di un linguaggio e proporre uno stile che influenzerà l’opera negli anni a venire”.
Nell’intervista, Lanzillotta, si sofferma sulle caratteristiche peculiari dell’opera in scena, rispetto agli altri due citati capolavori: “Prima di tutto direi la gestione del materiale melodico. In Sonnambula i cantabili raggiungono un grado di espansione mai visto prima.”, enfatizzando come il segreto dell’opera risieda nel “sottrarre per raggiungere la purezza del cantabile”. Giulia Vanoni, nel testo Alle radici del sonnambulismo, sottolinea come “il capolavoro di Bellini appartiene a una temperie culturale in cui il secolo dei lumi volgeva ormai al tramonto, mentre la nuova stagione ottocentesca si stava caratterizzando per una maggiore attenzione agli aspetti spirituali dell’uomo, al di là di quelli meccanicistici”.
Dunque, un’opera al confine tra due epoche, che potrebbe suggerire interpretazioni allegoriche anche facili: il confine labile tra sogno e veglia, esplorato in innumerevoli opere, da Calderón de la Barca a David Lynch; il conflitto tra ragione e sentimento, tra convenzioni sociali e verità interiore; oppure la metafora, praticamente, immediata, del risveglio, leggibile come si vuole, dall’esoterico all’esistenziale.
Insomma, non poche chiavi di letture possibili, diverse eppure parimenti plausibili… e invece? E invece, ancora una volta, mi trovo a dover ripetere sostanzialmente la stessa recensione delle precedenti rappresentazioni al Costanzi: meravigliosa l’esecuzione musicale, inaccettabile l’approssimazione registica. E mi accorgo di non essere l’unico: “Regia da incubo, canto da sogno”, è il titolo della recensione, che condivido, di Alberto Mattioli su Il Foglio; Dino Villatico, su Il Manifesto, parla di “malriuscita improvvisazione” della regia, ma “per fortuna ciò che la scena ignora, la realizzazione musicale lo restituisce”. Forse, l’unica cosa che riesce a mettere d’accordo le pagine culturali di quotidiani di orientamento quasi opposto è la critica nei confronti dell’ennesima regia forzatamente contemporanea al Teatro dell’Opera.
Nessun critico ha potuto, peraltro, eguagliare la potenza sarcastica del pubblico romano, irresistibile nella sua sfrontata maleducazione, che davanti ai video proiettati (!) durante la rappresentazione (regia, scene e costumi sono di Jean-Philippe Clarac & Olivier Deloeuil, noti come Le Lab) commentava ferocemente: “Ma che stamo ar cinema?”, “Ma chi è quella, la Cortellesi?”, “Ma che state a fà, aho?”. Difficile dar torto: ci deve essere una ragione arcana (nulla di pertinente alla sfera degli studi ermetici, molto più probabilmente e prosaicamente una questione di fondi) per continuare ad avvilire le prestazioni spesso impeccabili, talvolta straordinarie degli interpreti (citiamo solo la commovente Ruth Iniesta come Amina, da manuale Monica Bacelli come Teresa, ammaliante Francesca Benitez in Lisa) con tali goffaggini fintamente post-moderne: soluzioni registiche che riescono a essere sconce senza essere sensuali, sguaiate senza essere provocatorie, strampalate senza essere innovative, soprattutto, completamente insensate.
Nella fattispecie: se poteva avere vagamente un senso “sfruttare” la stanza dell’Hotel Quirinale, comunicante col teatro, prediletta da Maria Callas (diva belliniana per antonomasia) o di rappresentare come quadri viventi le opere di Palazzo Barberini (nei video proiettati durante l’opera), quale senso può avere ambientare in una galleria d’arte contemporanea i due atti del melodramma? Le Lab ha dichiarato di essersi ispirato alle opere di Caravaggio a S. Luigi dei Francesi per il processo di attualizzazione: ecco, appunto, proprio l’esempio sbagliato. Caravaggio ambienta in panni a lui contemporanei l’incontro tra San Matteo e Gesù perché la Conversione del Santo è l’incontro fra Eterno e Presente. Il classico è sempre attuale.
Come diceva Charles Peguy: “Omero è nuovo questa mattina e niente può essere così vecchio come il giornale d’oggi”. O come le rappresentazioni “moderne” e per questo destinate a invecchiare.