D’accordo, non mi sono presentato. È stato scortese. Non vela starò a tirare in lungo col chiamatemi Ismaele, come tutti, e in ogni caso lo zingaro c’est pas moi, a scanso di equivoci. Vi basti sapere che ho visto la luce di questo mondo nel centenario dell’Unità d’Italia, giusto centouno giorni prima della fine dell’anno.
L’orizzonte degli eventi, di Vittorio Giacopini (Mondadori), è un memorabile romanzo-pamphlet, sui generis, che conduce il lettore tra i flussi della Storia contemporanea e le sue conseguenze, individuali e collettive. L’Io narrante, una sorta di alter ego dell’autore, si ritrova a dialogare con uno strano zingaro trasformista dagli occhi azzurri, risultato degli esperimenti di mengeliana memoria fatti ad Auschwitz; lo zingaro è una specie di mutante non-mutante, un marginale votato al protagonismo, capace di occupare costantemente la scena per tutte le trecento pagine del testo. Un freak saggio e polemico che intavola battaglie lessicali con il protagonista.
Scontri che li porteranno ad affrontare temi quali la pandemia, il terrore del contagio, l’isolamento coatto, la guerra, il presente, la crisi climatica, le migrazioni, i talent show, le comuni anarchiche dei marinai, gli slogan della globalizzazione e la retorica della comunicazione mainstream.
Simboli che ci parlano? Che significano? Ma lascia stare, gagè, non ci badare. Nel buio della stanzetta studio, mentre lo schermo del PC spixela e tende al nero, eccolo che ritorna, il sempre facondo. Nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento, cantava il vate. Sottoscrivo: qualsiasi cosa faccia o pensi, o principi o dismetta, arriva lui e si impiccia, il trasformista.
Ma c’è un altro protagonista, oltre all’Io narrante e al suo invasivo interlocutore, ed è il Tempo, analizzato con tutte le contraddizioni dell’inevitabilità di un balzo in avanti spesso fatto per inerzia o per emulazione. E c’è un libro nel libro, fatto di parole, concetti, rimandi, citazioni, ricostruzioni filosofiche popolari. Così Herman Melville convive con Francesco Guccini, Leslie Fielder con Ludwig Wittgenstein, passando da un riferimento geografico all’altro (Wuhan, Suez, Oslo, Madrid, Londra, Roma, Mantova…), viaggiando lungo le tracce del presente, facendo emergere la voce degli esclusi, in un percorso non solo narrativo, intelligente, originale, con un linguaggio pregno di musicalità e carnalità.
Un’opera autentica, coraggiosa, provocatoriamente, assolutamente nuova nel sonnacchioso e pavido panorama letterario nazionale.
E lo zingaro ora inizia a svanire, mi fa ciao con la mano, sciama anche lui. Lo sento che parla tra sé, e non parla a vanvera. È sempre notte, la notte vince sul giorno. In girum imus nocte, et consuminur igni…