Implacabili come ogni anno sono arrivati i giorni della design week milanese, ormai debordati oltre la settimana canonica in una dimensione assieme bulimica, stimolante, ma certo necessaria di qualche riflessione critica oltre il consumo mordi e fuggi/usa e getta di iniziative, attività ed eventi in ogni dove della città, che da tempo hanno diviso insanabilmente il pubblico fra entusiasti e perplessi; fra gli attenti alle novità e ai movimenti socio-culturali ed economici collegati e i pensierosi attorno al significato attuale, dal punto di vista della qualità di ricerca e offerta per il sistema imprenditoriale e del design di un grande evento – divenuto forse soprattutto – comunicativo, di estremo interesse per una vasta platea internazionale e nostrana di addetti ai lavori e non solo.

Salone e Fuorisalone muovono un rilevante volano economico di impatto sulla città e ormai anche sui dintorni (quest’anno i visitatori posso deliziarsi di gite fuori porta progettate su misura), dopo aver contribuito in passato ad alimentare il rilancio immobiliare di zone periferiche non sempre imperdibili. La città e i suoi esercizi commerciali, a cominciare dalla lievitazione costi di alberghi e appartamenti, non riescono-vogliono contrastare la deregulation selvaggia di un po’ di tutto, che certo porta disagio ai cittadini e al pubblico, con ricadute di reputazione poco positive. La trasformazione di Milano dal dopo-Expo in città a vocazione anche turistica è del resto evidente e poco compensata da politiche pubbliche, con un’attenzione a una redditività immediata a scapito di investimenti strutturali e duraturi di salvaguardia, valorizzazione e cura del patrimonio complessivo socio-culturale e urbano.

Per quanto riguarda il mondo del design la questione della qualità dell’offerta dentro e fuori il Salone rimane il grande cruccio: alla proposta spropositata non corrispondono sempre risultati, ricerche, prototipi, prodotti degni di memoria e rilevanti per valore. La volontà di novità, effetto, spettacolo, comunicazione – che ormai da anni gravitano attorno alle magnifiche sorti e progressive delle tecnologiche o dell’AI, trattate in verità in modo ancora troppo poco impattante sulle condizioni e problematiche di vita reali – prevalgono sulla ricerca di innovazione, sulla sperimentazione foriera di direzioni che provino a intercettare nuovi contesti e sistemi valoriali.

Non che le condizioni potenziali manchino: dall’urgenza delle crisi globali permanenti alle emergenze climatiche, energetiche, socio-culturali troppo agitate e poco radicalmente affrontate, a cominciare dalle aziende talvolta più orientate a greenwashing che a interventi strategici-strutturali che ripensino progettazione-processo-produzione o servizi, anche se le leggi europee sulla gestione integrale del ciclo di vita del prodotto – che saranno presto adottate anche nel nostro paese – comporteranno obbligate e rilevanti conseguenze.

Restano alcune domande su tutte: qual è l’impatto ecologico complessivo delle manifestazioni attorno alla design week? Un tipo di investimento economico come quello che comporta la presenza a Milano si giustifica ancora ai tempi della rete e del digitale, di una radicale modificazione della distribuzione e del mercato? Ma sono in verità le stesse questioni di sostenibilità che si pongono per l’attuale sistema economico globale e la sua obbligata transizione.

La giovane presidenza del Salone ha avviato nello specifico giudiziose riflessioni sul futuro della manifestazione e del suo indotto; merita che un analogo percorso sia avviato con più vigore dalla città e soprattutto dal sistema complessivo del design, che non può certo dimenticare senso e ricadute del suo impattante operare nel mondo. Forse la design week può aiutare a fare il punto, che restiamo entusiasti o perplessi.

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