Malgrado il Tribunale di Milano l’abbia obbligata a farlo, Uber Eats non intende applicare la legge anti-delocalizzazioni. Lo ha scritto nero su bianco in una lettera inviata mercoledì sera ai sindacati, poche ore prima di un’udienza sulla class action promossa dalla Cgil. Insomma, la piattaforma non è disposta ad approvare un piano per tutelare i 4mila rider licenziati nell’estate 2023, quando ha comunicato la decisione di chiudere le attività in Italia lasciando a terra i fattorini. Una sentenza pubblicata a settembre aveva imposto di seguire la procedura prevista dalla norma Orlando del 2021, ma l’azienda sta in questi giorni cercando l’escamotage per evitarlo.
Uber Eats, infatti, non ha mai digerito la pronuncia con cui i giudici di Milano hanno disposto l’approvazione di un piano di sostegno ai rider. In buona sostanza, è una novità introdotta nell’estate 2021 dal governo Draghi, sull’onda delle delocalizzazioni industriali avviate dopo lo sblocco dei licenziamenti. Le aziende che intendono cessare le attività in Italia sono costrette a ridurre l’impatto dei licenziamenti predisponendo una serie di azioni: politiche attive, corsi per l’auto-imprenditorialità. Insomma, darsi da fare per accompagnare i lavoratori verso nuove opportunità di impiego. Naturalmente si tratta di azioni che hanno dei costi per le aziende.
Il rischio, già paventato dai critici della norma Orlando, è proprio questo: che i costi di questo piano di sostegno siano considerati più gravosi delle eventuali multe. Sembra proprio che Uber Eats stia confermando quel sospetto. Infatti, il 12 febbraio l’app aveva scritto a tutti i sindacati per comunicare l’avvio dei 60 giorni previsti dalla legge per la predisposizione del piano. Già in quell’occasione, l’azienda agì con strane modalità. Inviò infatti due missive differenti: una alle categorie di Cgil, Cisl e Uil; l’altra alla sola Ugl, sindacato che – come noto – è allineato sulle stesse posizioni delle piattaforme di food delivery, tanto da firmare a settembre 2020 un contratto collettivo che recepisce tutte le condizioni imposte fino ad allora, dall’utilizzo di collaborazioni autonome alla previsione di pagamenti a consegna in luogo dei salari orari.
Nel frattempo, Filcams, Filt e Nidil Cgil – sigle che rappresentano i lavoratori del commercio, dei trasporti e gli atipici – avevano presentato una class action, firmata dagli avvocati Carlo De Marchis, Matilde Bidetti e Sergio Vacirca, proprio per spingere Uber Eats a presentare il piano. Giovedì era prevista l’udienza e la sera prima è arrivata la clamorosa retromarcia: “A ragione di quanto emerso nell’incontro tenutosi tra le parti lo scorso 19 marzo 2024 – si legge nella lettera di Uber Eats – nessun piano nelle condizioni date poteva essere presentato nel contesto previsto da detta normativa”. Insomma, l’azienda preferisce le eventuali sanzioni piuttosto che arrivare al piano.
Il sospetto della Cgil è che sia una strategia proposta da uno dei consulenti aziendali, il quale – intervenendo su una rivista – faceva notare che le aziende rischiano sanzioni particolarmente serie se la mancata attuazione del piano deriva dalla mancata sottoscrizione da parte del sindacato. Ecco perché definiva “strategico”, da parte dell’azienda, “evitare in ogni modo l’avvio della fase negoziale”. Tra l’altro, pare che infatti durante l’udienza gli avvocati di Uber Eats abbiano manifestato l’intenzione della piattaforma di presentare il piano a patto che il sindacato lo firmi. Il che è singolare, ma comunque ha una sua logica alla luce delle norme.
Filcams, Filt e Nidil Cgil hanno definito “gravissimo che a poche ore dall’udienza, omettendo qualsiasi confronto sul piano di gestione degli esuberi imposto dalla legge sulle delocalizzazioni, Uber Eats si sia nuovamente sottratta al suo dovere sociale impedendo ai rider di avere accesso alle minimali forme di tutela previste per tutti i lavoratori”. Uber Eats spera comunque che venga annullata la sentenza di settembre 2023 che l’ha obbligata ad applicare la normativa anti-delocalizzazioni.