Chi entra in sala a vedere Civil War non cerchi farneticanti pamphlet Trump contro Biden, democratici buoni contro repubblicani cattivi, Nord progressista contro Sud retrogrado. Il film scritto e diretto da Alex Garland ha una sua sostanziale, evidente, magnetica vena apolitica da lasciare piacevolmente stupefatti. Insomma, nel futuro distopico/apocalittico che Garland costruisce attorno ad una guerra civile tra Forze dell’Occidente (Texas e California) e altri staterelli sparsi rivolti spietatamente in armi e tonanti dotazioni militari contro il presidente che sta a Washington, ormai accerchiato, e la sua ghenga, non c’è spazio per alcuna morale e ancora meno per una spiegazione a ritroso sulle cause della guerra medesima. Ci si ammazza come bestie, senza pietà ad ogni possibile angolo di strada, nei modi più imprevedibili, sadici e truci, tra gente che ha una divisa e chi solo una camiciola sozza e un cappelletto.
Civil War è un teso countdown di miglia e luoghi da percorrere con un pick-up su cui sono imbarcati la fotoreporter Lee (toh, si rivede Kirsten Dunst), il suo collega Joel (Wagner Moura), l’anziano reporter Sammy (Stephen McKinley Anderson) e la giovane intrufolata fotografa Jessie (Cailee Spaeney) per raggiungere Washington e compiere un’intervista scoop al presidente prima che costui venga defenestrato. In questo trambusto perenne di spazi senza veri confini, di pieni e vuoti di macerie, incendi, scontri a macchia di leopardo, dove nulla è certo, tutto è imprevedibile, potenzialmente pericoloso, addirittura mortale, si attiva la sottotrama della cinica iniziazione all’osservazione e alla ripresa della morte attraverso i mezzi di comunicazione, qui la fotografia (in bianco e nero).
Perfino chi come i protagonisti si aggira deciso ma tremante con il bollino “press” stampigliato ovunque per ripararsi da ogni reazione armata impulsiva, quando è il proprio turno diventa cinico sciacallo di fronte al trauma visivo e concreto della morte. Semmai Civil war potrebbe essere una radiografia estetizzante del maneggiare/usare/sventolare armi con (pardon) disarmante disinvoltura (guardate l’uso del kalashnikov che fa Jesse Plemons in un cameo dalla tensione inenarrabile) nel risolvere qualsivoglia conflitto regionale/locale; o ancora, una spinta volontaria proprio fisica, oltre la poltroncina del cinema, affinché lo spettatore si avvicini con gli occhi all’orrore in diretta tra chi si ammazza senza pietà. Una piccola notazione sul finale che, giustamente, è un esterno notte di guerra urbana per gestire con più efficacia la credibilità realistica dei luoghi sacri delle istituzioni americane. Il Lincoln memorial che salta in aria come la Casa Bianca ricorda sì il vero assalto a Capitol Hill di tre anni fa, ma non è per prendere posizione politica o stigmatizzare storicamente alcunché (anche perché il presidente defenestrato non è proprio un sincero democratico).
Semmai è con queste dosi sincopate e sovrabbondanti di scatti fotografici bianchi e neri tese ad assottigliare in maniera così verista e vistosa la differenza tra finzione e reale che Garland lascia un segno stilistico piuttosto indelebile nel cinema indie contemporaneo (produce A24). La morte è a un passo e alla portata istantanea di ognuno di noi, conservatori o progressisti che siano (e che si credano tali). Notevole la attutita direzione d’attori, tra cui una Dunst bolsa e stanca antistar nella polvere che non esprime mai, come del resto i suoi compagni di viaggio, alcun gratuito sentimentalismo.