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Il piano impossibile di Draghi sulla competitività europea: è fallito una volta, fallirà ancora

Il percorso segnato da Draghi sulla competitività europea fallirà. Il lato positivo è che forse, finalmente, potremo prendere atto della crisi della globalizzazione.

Ricordiamoci che l’infrastruttura politica europea è nata con la promessa che una maggiore integrazione dei mercati e con certe regole di bilancio l’Europa avrebbe potuto garantire ai suoi cittadini il benessere sociale. Come sappiamo però questa “idea” di Unione europea ha miseramente fallito nel 2009 con l’arrivo della grande crisi finanziaria, ragione per cui la leadership europea è stata costretta a realizzare in fretta e furia un radicale cambio di paradigma: dalla crescita comune alla crisi comune. L’austerità viene presentata – o meglio imposta – come la cura ai mali dell’economia e della finanza, omettendo di evidenziare che tali fallimenti sono stati causati da quell’architettura iniziale della “crescita comune”.

Anziché far gravare il peso dei danni ai protagonisti della crisi modificando in modo strutturale le regole del mercato globalizzato, si è deciso di far pagare un prezzo molto salato a pensionati e lavoratori, e più in generale ai comuni cittadini che hanno visto ridurre drasticamente i servizi sociali, dalla scuola alla sanità per intenderci.

L’aver salvato gli interessi di pochi a scapito dei cittadini senza comunque risolvere i problemi di fondo ha avuto un piccolissimo effetto collaterale: la perdita del consenso elettorale per via di quel fastidioso sistema politico che si chiama democrazia, talora aggirabile ma non ancora eliminabile. In sintesi, la crescita comune ha fallito, l’austerità (o la crisi) comune ha fallito. Quindi che si fa? Ma ovvio, si ritorna al progetto fallimentare iniziale: di nuovo proiettati alla crescita comune.

Ma d’altronde dovendo restare dentro al paradigma della globalizzazione che alternativa c’è?

Con le elezioni europee alle porte, sta facendo molto discutere il piano di Draghi per la Commissione Ue – non ancora disponibile ma anticipato dall’ex premier in occasione della sua partecipazione a un recente evento a La Hulpe, in Belgio. Il fulcro del discorso in fondo è sempre lo stesso: il rilancio della competitività, che è il solito obiettivo impossibile di tutti i piani europei. Peccato per noi che in nome di questa illusione sono state realizzate le peggiori riforme antisociali.

Quello che anzitutto bisogna porre in risalto è infatti la pericolosa contraddizione di fondo che sta distruggendo l’apparato statale e la politica. Da un lato non si fa altro che affidare ai mercati ampi margini di libertà di azione, se non addirittura di vero e proprio arbitrio, mentre dall’altro si ha la pretesa di governare l’economia pur avendo ceduto ai privati gli strumenti per farlo. Per cui, dopo aver privatizzato gran parte degli asset strategici dell’economia nazionale, si ha la pretesa di esercitare su di essa un potere di indirizzo di fatto inesistente, e siccome al capitale privato interessa estrarre il maggior valore – leggasi profitto – possibile, l’unica alternativa per la politica resta sempre la stessa, ossia assecondarne le pretese secondo l’unica idea di competitività a queste condizioni possibile: taglio dei costi per aumentare i guadagni, un po’ costo del lavoro, un po’ tasse, un po’ qualsiasi altra cosa.

Uno dei mali principali dell’Europa, e in verità del mondo occidentale, è proprio quello di confondere gli interessi e i poteri pubblici con quelli privati. In altri termini, è la errata distribuzione del potere tra Stati e mercati – ormai sfacciatamente sbilanciata a favore dei secondi – a rappresentare un grosso ostacolo alla realizzazione di qualsiasi progetto politico di rilancio dell’economia. Inutile quindi perdere tempo a individuare questo o quel settore produttivo (green, hi tech, metteteci dentro quello che volete) su cui investire senza avere risolto il problema che sta alla radice.

Per tali motivi dovrebbe considerarsi morta in partenza qualsiasi proposta basata sulla spinta alla competitività tra le regioni del mondo (Draghi cita gli Stati Uniti e la Cina), quando in verità occorrerebbe discutere della competizione tra potere pubblico e potere privato. Cosa volete che gliene freghi a una multinazionale della collocazione politica del territorio che gli consente di estrarre il maggior valore possibile. Il grande capitale non partecipa a questo tipo di conflitto, spalleggia chi gli consente di trarre il massimo vantaggio.

Vi invito dunque a leggere il discorso integrale di Draghi da questa prospettiva di fondo, e non sarà difficile rendersi conto come il suo progetto sia destinato a finire nel medesimo vicolo cieco di tutti quelli che l’hanno preceduto. Il punto è che Draghi e buona parte della leadership europea è davvero convinta che la strada sia più integrazione e competizione con il resto del mondo. Bisogna poi considerare un fatto ormai piuttosto scontato: in Europa c’è più divisione che unione, non si capisce come si possa far convergere in un’unica proposta di competitività paesi con economie differenti e politiche divergenti.

Quello che deve preoccupare è che in nome di questo risultato impossibile ne subiremo uno più che possibile: istituzioni europee sempre più forti dinanzi a stati sempre più deboli. Presto approfondimenti sui singoli temi trattati, perché la situazione è drammatica, seppur non seria.

Per chi ne avesse voglia, invito a leggere questo mio libro, La lotta di classe nel XXI secolo, dove ho dedicato ampio spazio a una indagine sul rapporto tra Stati, Europa e multinazionali, e sul perché alle condizioni attuali c’è ben poco da fare.