Parla Fulvio Macciardi, presidente dell'Associazione nazionale fondazioni lirico-sinfoniche: "Una volta i sovrintendenti, negli anni ’80, erano tutti di area comunista o democristiana, e dove c’era un sovrintendente democristiano c’era un direttore artistico di area di sinistra"
Cosa c’è dietro la soluzione-compromesso sulla nomina del nuovo sovrintendente del Teatro alla Scala, Fortunato Ortombina? L’annuncio del sindaco di Milano Beppe Sala sul prossimo cambio al vertice del tempio scaligero, con la designazione del dirigente della Fenice di Venezia dal primo settembre e la contestuale proroga di contratto all’attuale sovrintendente Dominique Meyer fino al primo agosto 2025, ha fatto discutere. Mesi di trattativa, un braccio di ferro fra il ministro Gennaro Sangiuliano e il primo cittadino di Milano, non privo di colpi di scena. Alla fine l’accordo. Ortombina è il nome indicato dal ministro e votato all’unanimità dal cda del Teatro, oltre ad essere, si dice, molto gradito dalle parti di Forza Italia. Ecco cosa ne pensa Fulvio Macciardi, presidente di Anfols, l’Associazione nazionale fondazioni lirico-sinfoniche.
Presidente Macciardi, come vede la nomina di Fortunato Ortombina alla sovrintendenza del Teatro alla Scala di Milano? “Finalmente un italiano”, ha dichiarato il sottosegretario alla Cultura Gianmarco Mazzi.
Ortombina è un collega molto bravo e competente. Il Teatro La Fenice di Venezia, di cui è attualmente sovrintendente, è stato un modello gestionale e culturale negli ultimi dieci anni per tutto il Paese dopo l’incendio che lo ha coinvolto. Si vuole importare alla Scala quel modello di Fondazione, e questo determinerà scelte artistiche nel medio periodo improntate a tradizione, repertorio e innovazione legate all’idea di un’identità culturale specifica: quella di un’eccellenza che possa identificare una proposta di produzioni unica per la Scala. Il fatto dell’italianità è da leggere in questa chiave.
Finora qual è stata la linea artistica del Teatro alla Scala?
Finora, con i sovrintendenti stranieri, si è prediletta una gestione tipica dei teatri mitteleuropei, con una linea di produzione davvero eccellente ma improntata a un’identità culturale pari a quella delle grandi capitali europee come Parigi e Vienna, dove il Teatro d’Opera di Stato da solo rappresenta ben 300 spettacoli all’anno, un numero esorbitante, potendo contare però su una diversificazione di programmi in teatri diffusi nella città.
Il repertorio della Scala è lo stesso che si può vedere nelle grandi capitali europee ma non può contare sulla stessa diversificazione. Ecco, credo che questa scelta di accordo fra ministero e sindaco di Milano e cda della Fondazione scaligera vada in direzione non solo di un equilibrio politico, ma di un cambiamento sulla programmazione delle prossime scelte artistiche. Molto importante sarà anche l’affiancamento al sovrintendente del direttore musicale, che dovrà condividere la sua linea. Penso al passato: ai maestri Claudio Abbado e Riccardo Muti che portarono a una focalizzazione sul repertorio italiano, ad aperture alla contemporaneità e a regie provocatorie negli anni ‘80 e ‘90. Definendo un’identità precisa non eguagliabile.
C’è stato un lungo braccio di ferro fra il sindaco di Milano e il ministero alla Cultura sulla nomina del nuovo sovrintendente: quali le criticità?
La prossima scadenza del mandato di Dominique Meyer e la conseguente nomina di un nuovo sovrintendente ai vertici della Scala ha scombinato tutti i progetti. Se non ci fosse stata la legge che stabilisce un massimo di 70 anni per i sovrintendenti delle Fondazioni sia italiani che stranieri (Meyer compirà 70 anni nel 2025, ndr) si sarebbe mantenuto l’attuale vertice per un ulteriore mandato, come è avvenuto per i due precedenti sovrintendenti. Meyer ha fatto un buon lavoro, certo, ma l’introduzione di questa legge ha accelerato il processo di decisione. Il sindaco Sala è stato in grado di affrontare con equilibrio la situazione, arrivando a una situazione di compromesso condivisa dal cda del Teatro. Ortombina, con le sue competenze, è uomo di grande esperienza. Non solo un uomo di compromesso politico ma un bravissimo manager.
Nel prossimo futuro arriveranno a scadenza, fra gli altri, anche i mandati dei sovrintendenti di Cagliari, Genova, Napoli, Bari, Roma, oltre a Venezia. Una scacchiera che andrà ricomposta. C’è chi vede in questo una manovra del Governo per occupare ruoli di egemonia culturale.
La legge Bray nel 2013 ha imposto il cambio di statuti delle Fondazioni da completarsi entro i primi sei mesi del 2015. Ha riportato un forte controllo da parte dello Stato. La prima scadenza si è verificata nel 2020, e nel 2025 ci sarà un ulteriore scadenza naturale degli organi di gestione. La legge ha stabilito questo: sono i consigli di indirizzo delle Fondazioni con il sindaco a proporre il sovrintendente, che deve essere nominato dal ministro in carica, che può anche intervenire sulla scelta. Nel frattempo è cambiato il Governo. Su 12 vertici di Fondazioni nel 2025 ne cambieranno ben 9. Ci saranno di certo ratifiche legate alla politica. È normale che sia così. Niente di nuovo. Una volta i sovrintendenti, negli anni ’80, erano tutti di area comunista o democristiana, e dove c’era un sovrintendente democristiano c’era un direttore artistico di area di sinistra. Ora quel mondo non c’è più. Si spera che oggi si diano priorità a criteri di scelta e qualità manageriali. O almeno, lo vorrei sperare. Nel caso specifico di Ortombina ne sono certo. Per il resto vedremo.
Quanto conta la politica nelle nomine dei sovrintendenti?
Che ci sia un’attenzione politica nelle nomine è una conseguenza naturale. Il maggior attore è lo Stato che dà le risorse maggiori agli enti lirici. Ci sono meccanismi di controllo, è ovvio. Assistiamo a un passaggio che riconduce le Fondazioni al pubblico e sempre meno al privato. Ci si era illusi, con la Legge Veltroni del 1996, che ha reso le Fondazioni enti di diritto privato, che il privato potesse parzialmente sostituire i maggiori contributi derivanti dal pubblico. Ma questo è avvenuto solo per la Scala, che oggi gode di uno Statuto speciale (con l’Accademia Santa Cecilia di Roma). In realtà, se formalmente le Fondazioni Lirico Sinfoniche restano enti di diritto privato, di fatto restano assoggettate a molte prassi e normative degli enti pubblici, principalmente quelli di controllo.
Si attende la Legge quadro sullo Spettacolo: quali sono le urgenze che a suo avviso andrebbero inserite per un reale rilancio delle Fondazioni?
Chiarire bene la natura giuridica delle Fondazioni, che resta un ibrido fra pubblico e privato. Poi favorire l’intervento dei privati con una forte defiscalizzazione, come avviene in altri stati europei. Infine, dare linee di indirizzo gestionali.
Chi c’è in lizza per i prossimi vertici delle Fondazioni?
Non esiste un identikit del sovrintendente: attualmente sono figure che si sono create nel tempo da un vasto bacino non solo istituzionale, improntate a caratteristiche di managerialità. Per il rinnovo potrebbero essere presi in considerazione responsabili da altri settori dello spettacolo, dal più piccolo teatro di prosa alle Ico (istituzioni concertistico orchestrali). Il modello di gestione è una realtà molto complessa che necessita certamente anche di un’esperienza acquisita sul campo e non solo in ambito teorico formativo. Voglio sperare che si diano priorità a qualità tecniche e manageriali per le nomine del prossimo futuro. Come è avvenuto per Fortunato Ortombina.