Due affermazioni notissime, comprese unitamente, ci soccorrono nel tentativo di compendiare in poche battute il senso della rivoluzione filosofica compiuta da Kant, di cui ricorrono oggi i trecento anni dalla nascita.
Cercherò di ripercorrerle nel modo più piano possibile, dunque da un lato semplificando e dall’altro evitando inutili e qui senz’altro cavillosi specialismi. Al di là dell’aneddotica, o di un riassunto storico-enciclopedico della vita e dell’opera kantiana, mi par questo possa essere un buon metodo per mantener viva, benché su di un piano divulgativo, una connessione con alcune delle idee più decisive che alimentano il suo pensiero.
La prima citazione (dalla Critica della ragion pura) recita: “I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche”. Essa condensa con estrema pregnanza il modello kantiano, secondo il quale la conoscenza oggettiva dei fenomeni non può essere di carattere né esclusivamente empirico (come era stato proposto dagli empiristi inglesi) né esclusivamente razionale (ossia ‘mentale’, com’era inferibile da Descartes). Ma che cosa significa esattamente? Anzitutto che ciò che conosciamo non consiste mai nella mera acquisizione, mediante gli organi di senso, di un contenuto sensibile. E perché? Poiché se non elaborato tramite le strutture a priori che organizzano mentalmente i dati raccolti dall’esperienza, il materiale percepito risulta privo di forma e quindi intellettualmente ‘illeggibile’, vale a dire: niente di propriamente conoscibile.
Ma questo implica allora che quel che chiamiamo ‘conoscenza’ sia soltanto il ‘prodotto’ di un’attività mentale? Nient’affatto: le categorie in cui si articola il funzionamento della nostra mente operano solo se applicate al materiale messo empiricamente a disposizione dall’intuizione sensibile. Di per sé le forme soggettive della conoscenza, cioè le nostre ‘strutture mentali’, sono vuote. Ne consegue che si ha vera conoscenza solo quando le strutture razionali dell’intelletto si applicano al materiale empiricamente percepito, quando cioè dimensione empirica e dimensione intellettuale agiscono congiuntamente in maniera letteralmente con-forme.
Perché si dia conoscenza è però necessaria un’ulteriore condizione, perfettamente espressa nella seconda citazione che intendo richiamare: l’incipit, celeberrimo, del § 16 della Deduzione trascendentale: “L’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni; ché altrimenti verrebbe rappresentato in me qualcosa che non potrebbe essere per nulla pensato, il che poi significa appunto che la rappresentazione o sarebbe impossibile, o, almeno per me, non sarebbe”. Nella sua icasticità, l’idea che trasmette è limpidissima. Premessa per una sua adeguata comprensione è che noi non conosciamo le cose in sé, ma soltanto le loro rappresentazioni in noi, cioè il modo in cui esse ci appaiono in quanto fenomeni percepiti organizzati per noi dalle nostre strutture conoscitive. Ogni soggetto, quindi, è ‘investito’ dalle serie di rappresentazioni che si generano dal lavoro dei concetti sui contenuti percettivi procurati dall’esperienza.
Tuttavia cosa succederebbe, si chiede Kant, se, nel loro insieme, queste rappresentazioni non convergessero tutte verso uno stesso punto, se non fossero cioè tra loro formalmente correlate ad uno stesso ‘Io’? Avremmo a che fare con un’entità disgregata, indefinitamente dissociata da sé e granularmente diffusa, cioè con l’assenza di un soggetto coerente che possa recepire, elaborare e comunicare conoscenza.
Affinché vi sia conoscenza non basta che i concetti si applichino all’esperienza, va infatti postulata l’unità della coscienza che deve poter tener insieme, sapendola come propria, tutta la molteplicità delle rappresentazioni che costituiscono il contenuto oggettivo della sua intellezione razionale dei fenomeni. In altre parole, come nella prospettiva frontale tutte le linee di costruzione che strutturano le immagini rappresentate rimettono a un unico punto di fuga, così tutte le rappresentazioni mentali delle cose devono convergere verso l’autocoscienza, cioè la forma unificante dell’Io trascendentale.
Da queste semplici riflessioni risulta già di per sé chiaro l’asse portante del Criticismo kantiano, la cui prestazione speculativa si sviluppa tenendo fermi questi due principi: il fatto che la conoscenza è il risultato di una correlazione strutturante tra piano empirico e attività concettuale, e il fatto che il risultato di questa correlazione, cioè le rappresentazioni dei fenomeni che costituiscono la nostra conoscenza del mondo, deve raccogliersi consapevolmente sotto l’orizzonte appercettivo di un unico Io, cioè di uno stesso soggetto conoscente, la cui struttura è identica per tutti gli individui.
Quest’ultimo passaggio è dirimente e concederebbe non pochi confronti col contemporaneo. Dire infatti che “L’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni” significa affermare che è l’unità trascendentalmente sovrana dell’Io a garantire la conoscibilità, dunque la realtà oggettiva – razionale e perciò stesso comunicabile – delle rappresentazioni. Se guardiamo all’oggi, tuttavia, succede qualcosa di essenzialmente opposto. Nell’ambito dei social media, dove avviene il più ampio commercio che il sapiens abbia mai intrattenuto con le proprie rappresentazioni del mondo, accade infatti che, appunto, solo tramite una massiccia produzione ed esibizione di rappresentazioni è possibile generare narcisisticamente un Io. Non è la forma dell’Io a legittimare la veridicità epistemologica delle rappresentazioni, ma la varietà e la potenza attrattiva esercitata dalle rappresentazioni prodotte a legittimare la costruzione psicologica dell’Io.
A tal riguardo, cioè in relazione all’infodemia immaginale delle rappresentazioni diffuse soggettivamente in rete, difficilmente, tenendo fede ai parametri kantiani, si potrebbe a rigore ancora parlare di ‘conoscenza’.