L'INTERVISTA - L'ex presidente del Parco dei Nebrodi, sopravvissuto a un attentato nel 2016. scelto come capolista nella circoscrizione Isole da Conte: "Il clima nel nostro Paese è chiaro ed evidente: stanno picconando i presidi di legalità fondamentali per le indagini. Stanno eliminando pure reati spia come l'abuso d'ufficio. Nordio dice che i mafiosi non parlano al telefono? Senza intercettazioni dei mafiosi io sarei morto. Perchè voglio fare l'europarlamentare? Mafie globalizzate, per creare sviluppo vanno combattute a livello comunitario"
Dice Giuseppe Antoci che “quando per i mafiosi arrivano gli arresti è già troppo tardi, lo Stato ha già perso“. Che vuol dire? “Ho sempre pensato che la migliore lotta alla criminalità organizzata sia l’antimafia sociale, cioè quella che ha la forza e il coraggio di prendersi cura di chi ha avuto la sfortuna di nascere in periferia, dove magari è molto più facile finire a fare un certo tipo di vita”, spiega l’uomo che Giuseppe Conte ha scelto per guidare la lista del Movimento 5 stelle nella circoscrizione Isole. “Un campione dell’antimafia“, è arrivato a definirlo l’ex presidente del consiglio, presentando la sua candidatura alle Europee. “Ma io di mafia non ne sapevo nulla, non potevo immaginare quello che sarebbe successo”, racconta lui. Siciliano di Santo Stefano di Camastra, 56 anni, fino a poco più di dieci anni fa era soltanto un manager di banca. Poi nel 2013 il governo regionale di Rosario Crocetta lo nomina presidente del Parco dei Nebrodi: una riserva naturale da 85mila ettari che comprende 25 comuni tra le province di Catania, Enna e Messina. Molti di quei terreni, però, erano stati dati in affitto dalla Regione e dai Comuni ai boss di Cosa nostra, ai loro parenti e ai loro prestanome. Sui giornali l’hanno definita la mafia dei pascoli, ma a dispetto del nome arcaico è un’organizzazione moderna e dinamica. Il meccanismo era semplice e diabolico al tempo stesso, come spesso accade nelle cose di mafia: per ogni ettaro veniva pagato un canone di affitto compreso tra i 12 e i 30 euro. Quello stesso ettaro, però, arrivava a fruttare tra i 300 e i 900 euro di fondi Ue. “Un business paragonabile al narcotraffico, solo che in questo caso la percentuale di guadagno è maggiore, mentre quella di rischio è pari a zero”, spiega Antoci, che nei giorni scorsi è stato a Bruxelles per raccontare come la mafia sia riuscita ad accaparrarsi i fondi Ue nell’indifferenza generale. Proprio nella città dell’Eurocamera l’aspirante parlamentare ha risposto alle domande del fattoquotidiano.it: una lunga intervista in cui parla della sua candidatura, del protocollo di legalità che ha portato allo scoperto gli affari dei clan, dell’attentato subito nel 2016 e delle roventi polemiche nate su quel clamoroso agguato.
Dottor Antoci, partiamo dalla fine: perché ha deciso di candidarsi?
Negli ultimi anni ho incontrato migliaia di studenti di scuole e università: ho voluto raccontare le mia vicenda alle generazioni più giovani. Adesso, in un momento in cui tra l’altro varie parti del Paese vengono colpite da inchieste per voto di scambio e corruzione elettorale, ho semplicemente pensato che fosse arrivato il momento di mettere la mia esperienza al servizio della politica. Esattamente com’è accaduto quando ho accettato guidare il Parco dei Nebrodi.
Lei è stato un dirigente del Pd: come mai non si è candidato coi dem?
Avrei potuto farlo in passato quando Nicola Zingaretti me l’ha proposto. Ma non era ancora il momento, ora invece penso di sì.
Però oggi ha scelto di correre con i 5 stelle: come mai?
In questi anni quando c’era qualcosa da fare a livello di legislazione antimafia i 5 stelle ci sono sempre stati. E in tema di lotta alla mafia Giuseppe Conte ha dimostrato nettamente da che parte sta: ha candidato Roberto Scarpinato e Federico Cafiero De Raho, che per me sono una garanzia.
Perché vuole fare l’europarlamentare?
Perché la prima cosa che fa la lotta alla mafia è creare sviluppo. Lo abbiamo visto sui Nebrodi: l’economia esplode e arriva il lavoro solo quando liberiamo i territori dalla zavorra mafiosa. È quello che vorrei cercare di fare a Bruxelles: combattere la mafia per creare sviluppo in tutta l’Unione, visto che le mafie sono ormai completamente globalizzate. Anche quella che viene definita semplicemente come mafia dei pascoli.
In che senso?
La questione delle inflitrazioni nei fondi Ue per l’agricoltura non è un tema soltanto italiano. Anzi a questo proposito vorrei ricordare la figura di Jan Kuciak, il giornalista ucciso insieme alla sua fidanzata in Slovacchia. Quel giorno avrebbe dovuto vedere una sua collega, ma quell’incontro è saltato. In seguito questa persona mi ha intervistato e mi ha raccontato che sul suo pc Kuciak aveva un appunto con scritto “protocollo Antoci”. Kuciak stava ricostruendo gli affari della ‘ndrangheta nel suo Paese: evidentemente lavorava anche sulle infiltrazioni nei fondi Ue.
Lei ha detto che di mafia non sapeva molto, d’altra parte non è un magistrato e nanche un investigatore: come nasce dunque quel protocollo che colpisce i clan?
Io vengo nominato al vertice del Parco dei Nebrodi dal governo regionale di Rosario Crocetta nel 2013. Dopo il mio insediamento un funzionario di polizia e un paio di sindaci mi segnalano che ci sono alcuni agricoltori al centro della Sicilia vessati e minacciati. In pratica gli era vietato partecipare ai bandi della Regione per prendere in affitto i terreni e coltivarli.
Perché?
I bandi erano monopartecipati: si presentava una sola società che quindi si aggiudicava i terreni messi a gara. Una squadra di calcio giocava da sola, senza arbitro e ovviamente vinceva. A un certo punto mi sono chiesto: ma questi chi sono?
E chi erano?
Tutti mafiosi e parenti di mafiosi. Negli anni successivi abbiamo scoperto che prendevano fondi Ue Gaetano Riina, fratello del più noto Totò, le famiglie Santapaola ed Ercolano, le sorelle di Matteo Messina Denaro, i Pelle, i Pesce e i Mancuso che in Calabria sono note famiglie di ‘ndrangheta.
Come ci riuscivano?
La legge prevedeva che per bandi a base d’asta inferiori a 150mila euro non occorreva il certificato Antimafia rilasciato dalle prefetture. Bastava un’autocertificazione. I mafiosi assicuravano allo Stato di non essere mafiosi.
La novità del protocollo, dunque, è portare quella soglia a zero?
Esattamente. A quel punto è scoppiato il putiferio e ci accorgiamo che i casi non sono cinque, come gli agricoltori vessati, ma decine e decine: accadono vicende clamorose.
Per esempio?
Spesso capitava che qualcuno tentava di vendere un pezzo di terreno, magari ricevuto in eredità dal nonno. Andava dal notaio, che però gli diceva che quell’appezzamento non si poteva vendere perché c’era il vincolo dell’Agea, l’agenzia per le erogazioni in agricoltura: era un terreno destinatario di aiuto comunitario. C’erano pure le carte, firmate magari poco tempo prima dal nonno, che però magari era morto da decenni. Ovviamente era tutto falso.
I mafiosi “rubavano” i terreni a ignari possidenti con l’unico obiettivo di chiedere i fondi europei.
Solo che a volte qualcuno sbagliava.
Che intende?
Un pezzo della pista dell’aeroporto di Punta Raisi risultava terreno seminativo ed era in mano ai mafiosi. Lo stesso valeva per una porzione della base Nato di Niscemi, dove c’è il Muos, ma pure per un campo da calcio in Calabria e addirittura per la riserva di Marzabotto, in Emilia Romagna: figuravano tutti come terreni agricoli. Ecco perché il commissario Ue all’Agricoltura, Phil Hogan, ha promosso il nostro protocollo, definendolo “un esempio” di lotta alla mafia.
Una truffa del genere, però, non può essere realizzata solo da boss e gregari.
No, infatti. I protagonisti di questa storia non siamo soltanto io e i mafiosi.
E chi sono?
Il silenzio e le connivenze: le cose andavano così da almeno da 15 anni. In pratica mentre lo Stato ricordava le vittime delle stragi, nello stesso momento faceva arrivare milioni di euro nelle mani dei parenti di chi magari quelle stragi le ha armate.
Di che cifre parliamo?
Dopo l’entrata in vigore del protocollo, il direttore generale dell’Agea parlava di indebite percezioni per quasi 30 milioni di euro e l’annullamento di 28mila titoli per un valore di circa 9 milioni all’anno. Moltiplicato per sette, cioè gli anni della programmazione europea, vuol dire più di 60 milioni che erano in mano alla mafia. E parliamo di numeri relativi solo a una piccola provincia come quella di Enna.
Cifre che quindi vanno moltiplicate per tutto il Paese?
Assolutamente sì. La questione è molto più estesa della sola Sicilia e riguarda molte regioni italiane. Siamo seduti su un pozzo senza fondo: l’applicazione della norma devasterà i capitali mafiosi per i prossimi dieci anni.
Che fine fa tutto questo denaro?
Serve a mantenere le famiglie dei detenuti, per fare investimenti nel mercato della droga, in quello immobiliare. Le mafie sono liquide, si adattano al contenitore: negli anni ’80 dopo il terremoto la Camorra divenne la prima società edile in Irpinia. Poi investì nello smaltimento rifiuti. Negli anni duemila hanno capito che bisognava puntare ai fondi europei per l’Agricoltura: il rischio era pari a zero mentre i guadagni erano altissimi. E i soldi arrivavano direttamente sui loro iban.
Però mi scusi: come faceva a non accorgersene nessuno?
Gliel’ho detto, grazie al silenzio e alle connivenze: funzionari corrotti che segnalavano i terreni liberi, cioè quelli che non percepivano ancora i fondi, notai che trasferivano addirittura 200 particelle di terreno in una notte.
In pratica senza corruzione la mafia non si sarebbe mai potuta infiltrare nel sistema degli aiuti Ue?
È assolutamente così: c’è chi tace per paura ma anche chi è assolutamente complice.
Eppure l’attuale maggioranza di governo sta modificando molte delle norme relative ai reati contro la pubblica amministrazione.
Il clima nel nostro Paese è chiaro ed evidente: stanno picconando i presidi di legalità fondamentali per le indagini. Stanno eliminando pure reati spia come l’abuso d’ufficio. Quante sono le attività giudiziarie che partono dalle procure ordinarie ma poi arrivano alle direzioni distrettuali antimafia? Tantissime. Ma se demoliamo la prima parte, poi non ci sarà mai la seconda.
Finora il governo ha sempre assicurato che non saranno toccati i reati mafiosi e gli strumenti investigativi per indagare sui clan. Il ministro Nordio, però, qualche tempo fa ha detto che i boss non parlano al telefono quindi le intercettazioni sui mafiosi non sono poi tanto utili.
Senza intercettazioni io sarei morto: mi sono salvato perché avevo la scorta, che mi era stata assegnata dopo che alcuni boss avevano avanzato il proposito di uccidermi. Per fortuna quel summit era intercettato.
Era la notte del 18 maggio 2016, sparano sulla sua auto blindata dopo aver bloccato una strada sui Nebrodi con alcuni massi. C’erano anche le molotov per incendiare la macchina: quella frase di Nordio l’ha fatta arrabbiare?
Così si scherza con la vita delle persone. In questo modo il messaggio è che esporsi non conviene più e denunciare può essere quasi pericoloso. Io per fortuna ho ricevuto dalla mia famiglia la forza per andare avanti.
Otto anni dopo le inchieste sui suoi attentatori sono state tutte archiviate. Che effetto le fa sapere che oggi i colpevoli dell’agguato ai suoi danni sono ancora a piede libero?
Purtroppo la storia del nostro Paese è piena di stragi, attentati e delitti eccellenti rimasti irrisolti. Io penso che la magistratura abbia le idee chiare sui miei attentatori, ma per portare a processo la gente con l’accusa di strage servono le prove. Altrimenti si rischia di vederli finire assolti.
Sulla questione si è interrogata anche la Commissione Antimafia siciliana guidata da Claudio Fava, che ha ipotizzato tre piste dietro all’agguato: l’attentato fallito, l’atto dimostrativo o l’ipotesi di una simulazione.
Io penso che alla relazione della Commissione abbia riposto la magistratura definendo quelle tesi come “elucubrazioni mentali” e “preconcette”.
Nella relazione dell’Antimafia, comunque, lei è considerato una vittima in ogni caso, cioè qualsiasi sia la natura dell’agguato.
Secondo me il commento migliore a tutte queste ipotesi è rappresentato dalla medaglia d’oro al valor civile concessa dal presidente della Repubblica agli uomini che mi hanno salvato la vita: dal 1851 è stata assegnata soprattutto alla memoria.