La Resistenza non è stato affare solo per uomini. Secondo alcune stime le donne che hanno partecipato alla lotta partigiana sono state 70mila, un numero probabilmente calcolato per difetto. Proprio durante la guerra e con la Resistenza le donne avevano sperimentato un’emancipazione di fatto dai ruoli tradizionali. Dopo la fine del conflitto, tuttavia, c’è stato una specie di silenzio generale sulla Resistenza femminile perché si cercò di normalizzare il ruolo delle donne, come mogli e madri, la loro “essenziale funzione familiare” – sancita anche dall’articolo 37 della Costituzione. Le cose sono iniziate a cambiare dagli anni Sessanta e soprattutto dagli anni Settanta, quando militanti e studiose hanno individuato nella narrazione storica uno dei terreni principali di costruzione e legittimazione dell’oppressione patriarcale e hanno sottolineato che la storia non è giustapponibile al passato, bensì alla narrazione del passato, parziale e orientata da chi la scrive. I movimenti femministi hanno denunciato il rapporto tra cancellazione delle donne dalla storiografia e loro svalorizzazione nel presente, da una parte; tra il protagonismo storico degli uomini e le loro posizioni di potere, dall’altra. Ilfattoquotidiano.it ha intervistato la storica Sonia Residori, autrice di moltissimi libri, tra cui Sovversive, ribelli e partigiane. Le donne vicentine tra fascismo e Resistenza (Cierre 2021).
Professoressa Residori, qual è stata l’esperienza delle donne vicentine nel corso della Resistenza?
Nel Vicentino, all’indomani della Liberazione, partigiane e patriote della brigata garibaldina Stella furono inquadrate nel battaglione Amelia, dal nome di battaglia di Cornelia Lovato, caduta in combattimento il 28 aprile 1945. Flora Cocco (Lea) e Wilna Marchi (Nadia) furono designate rispettivamente comandante e commissario politico. La nomina fu fatta a posteriori, ma rispecchiava una realtà di fatto in quanto un consistente numero di donne aveva aderito alla Resistenza in tutta la valle dell’Agno. Nell’esercito della Resistenza, le donne hanno ricoperto molteplici incarichi: infermiera, vivandiera, sarta, dattilografa, cuoca, lavandaia, in particolare quello di staffetta portaordini, un ruolo prezioso nato dalla necessità della guerra per bande, essendo fondamentale tenere i collegamenti tra i diversi distaccamenti e assicurare i rifornimenti. Sfidando la morale comune, un certo numero di ragazze viveva presso i reparti partigiani, alcune possedevano un’arma e la usavano. Non possiamo, in ogni modo, affermare, come sottolinea Jean Bethke Elshtein, che le donne possiedano alcuna innata inibizione circa il combattimento e lo spargimento di sangue, in quanto le combattenti emergono durante tutta la nostra storia. Le rivoluzioni e le insurrezioni, in genere la guerriglia, hanno ripetutamente impiegato le donne in ruoli di combattimento, in quanto sono conflitti atipici o, forse, perché le forze rivoluzionarie sono per definizione meno formali e meno condizionate dalla tradizione che non gli eserciti degli stati nazionali. Oltre alle partigiane combattenti, vi erano pure quelle sabotatrici.
Quali erano le relazioni con le varie forze politiche?
Per decenni il paradigma interpretativo della Resistenza si poggiava esclusivamente sulla visione virile della guerra per bande, privilegiando gli aspetti militari di scontri armati, dei compagni feriti, morti o scampati, le questioni legate ai partiti, con riunioni, accordi fra i capi, divisioni territoriali e numeriche con pattuglie, distaccamenti, brigate e divisioni. Una ricostruzione di impianto maschile tutt’altro che univoca, con le diverse anime politiche in contrasto fra loro con una animosità a volte paradossale. I racconti delle donne, interviste o diari, hanno trasformato la versione maschile della Resistenza in una visione diversa degli eventi, declinata secondo una sensibilità femminile, sulla solidarietà fra individui, coinvolgente, stante gli anni passati, la diversità di ceto sociale e la militanza politica. Il racconto delle donne pone l’accento sulle virtù quotidiane piuttosto che su quelle eroiche, sulla guerra come violenza piuttosto che come scontro armato. Il racconto delle donne sposta inevitabilmente il baricentro della ricerca dalla strategia bellica al dolore e alla sofferenza delle vittime. Le donne si organizzano in gruppi più o meno numerosi, forse per ispirazione delle militanti del Partito comunista (Gruppo di difesa delle donne), o forse, più spesso, in modo del tutto spontaneo, senza esprimere alcuna volontà politica, perché nella maggioranza domina il sentimento di odio per la guerra e il desiderio della pace anche a qualsiasi costo.
Quale era il rapporto con i partigiani uomini?
Nelle brigate che vivevano in montagna c’erano anche donne partigiane, talvolta per scelta, più spesso per necessità perché individuate dai nazifascisti. Con i maschi condividevano i nascondigli, i turni di guardia, i riposi notturni, le marce per fuggire ai rastrellamenti. Erano addestrate all’uso delle armi, ma erano loro che si dovevano occupare dei lavori femminili, come lavare, cucire e cucinare. Vi era una separatezza dei compiti basata su vecchi schemi e vecchie concezioni. I loro compagni non davano valore politico alla guerriglia delle donne, considerate collaboratrici utili ma non pari. Anzi, i comandi partigiani erano seriamente preoccupati per la presenza femminile che poteva provocare un disordine sessuale ed emotivo. Non è facile né scontato per una donna, neppure oggi, essere accettata alla pari nel gruppo di maschi, occorre guadagnarselo dimostrando un di più di audacia e determinazione. Nemmeno questo basta ad infrangere pregiudizi radicati, il persistere di una mentalità che associa la donna alla sfera dei sentimenti e della sessualità e per questo la considera pericolosa.
Come è stata offuscata questa presenza nell’immediato dopoguerra?
Nel Dopoguerra un silenzio singolare è sceso sulle donne, sul corpo femminile e sulla peculiarità della loro esperienza e quasi tutte per uscire dal trauma della violenza, per far fronte alla disperazione e alla solitudine esercitarono il proprio diritto all’oblio, elaborarono una memoria personale arrivando fino alla rimozione. Una condizione che è andata attenuandosi con la lontananza temporale, con i filtri e le coloriture che il tempo ha costruito, fino a capovolgersi nell’esigenza di testimoniare, quasi fosse un dovere. Nonostante il prezzo pagato in termini di violenza, carcerazione e deportazione, le donne partigiane vennero in gran parte escluse dalla vita politica, relegate ancora una volta al focolare domestico. Qualcuna nel Dopoguerra riuscì a raggiungere qualche posizione di comando, ma furono pochissime. Ad esempio, nessuna donna vicentina fu eletta nelle primissime libere elezioni. Fra tutte vorrei ricordare Olimpia Menegatti Piancastelli. Nata agli inizi del Novecento, era stata assunta giovanissima al cotonificio Rossi, dove entrò ben presto, per il Partito socialista, a far parte della Commissione interna. Nel 1921 riuscì, scappando sui tetti, a sfuggire all’olio di ricino dei fascisti. Pur essendo rimasta, in giovane età, vedova e con una figlia, durante la Resistenza la sua casa divenne un punto di riferimento importantissimo per il Partito comunista, come luogo di riunione e di assistenza. Arrestata nel dicembre del 1944 fu torturata con la corrente elettrica e rimase in carcere fino alla liberazione. Alle elezioni del 1946 si presentò candidata, ma nonostante il suo grande contributo dato alla politica e alla Resistenza, non venne eletta.
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Foto in alto | Nei due riquadri in alto a destra Flora Cocco (Lea) e Wilna Marchi (Nadia)