Televisione

Pablo Trincia racconta il Sudafrica: “Violenza e criminalità hanno reso Cape Town la città con il più alto numero di omicidi più al mondo”

Ecco come nasce la docuserie "Essere Umani: le cicatrici di Cape Town"

di Francesco Canino
Pablo Trincia racconta il Sudafrica: “Violenza e criminalità hanno reso Cape Town la città con il più alto numero di omicidi più al mondo”

Dal sogno e dai colori della Rainbow Nation al bianco e nero di una città dove si mescolano paura, violenze e clamore disuguaglianze sociali. Era il 27 aprile del 1994 quando Nelson Mandela venne eletto con l’87% dei voti primo presidente nero del Sudafrica, un anno prima gli era stato assegnato il Nobel per la pace grazie al lavoro svolto “per la fine pacifica del regime dell’apartheid e per aver posto le basi per un nuovo Sudafrica democratico”.

A trent’anni di distanza, a dominare non sono i colori dell’arcobaleno ma il chiaroscuro di una rinascita compiuta solo a metà. Ed è proprio nelle contraddizioni estreme di Cape Town che si è immerso Pablo Trincia per realizzare “Essere Umani: le cicatrici di Cape Town“, la docuserie Sky Original prodotta da Sky Italia e Sky TG24, realizzata da Chora Media con la regia di Paolo Negro, in onda su Sky TG24 e Sky Documentaries il 24, 25 e 26 aprile in prima serata. Cosa c’è sotto quelle cicatrici? Che cosa accade appena oltre le ville coloniali e i campi da golf della città?

Pablo, dopo Mumbai ha scelto di raccontare Cape Town e le contraddizioni del Sudafrica. Perché?
Il trentennale dalla fine dell’apartheid è stato il click che ci ha fatto venire voglia di partire per provare a fare un racconto nuovo, sulla scia di quello realizzato a Mumbai. L’obiettivo era provare a raccontare l’altra faccia della città, immergendosi nella Township, un’intricata serie baraccopoli a pochi minuti dal centro, dove a inizio ‘900 vennero segregati gli abitanti neri della città.

L’impatto com’è stato?
Molto forte. Oggi ci sono circa 120 gang in tutta Cape Town, che tradotto significa almeno 100 mila persone in lotta quotidiana tra di loro. Pochi giorni prima che arrivassimo noi, un turista americano si era beccato proiettile in faccia solo per aver impostato male il navigatore: scambiando una strada per un’altra, si è trovato nel posto sbagliato.

Vi siete infiltrati tra i covi e i nascondigli delle peggiori gang di Cape Town. “Non si entra se non accompagnati da qualcuno che garantisce per te”, spiega nella docuserie. Chi ha garantito per lei?
Per la prima volta da quando faccio questo mestiere sono andato scortato da un uomo di security armato. Girare senza qualcuno che ti protegga, nella Township, è impossibile. La violenza e l’alto tasso di criminalità hanno reso Cape Town la città con il più alto numero di omicidi più al mondo.

C’è stato un momento in cui ha avuto paura?
Diciamo che il “welcome to” è stato impressionante. Praticamente appena iniziate le riprese ci siamo imbattuti in un uomo che inseguiva in mezzo alla strada una ragazza, urlava e cercava di ucciderla con un coltello. In quelle situazioni hai pochi secondi per decidere che fare: “Faccio l’irresponsabile e do una mano oppure faccio finta di niente e non rischio?”.

E che cosa avete scelto di fare?
Gli siamo corsi dietro, lo abbiamo distratto e ci abbiamo parlato. Abbiamo salvato la vita di quella ragazza? Chissà, forse per qualche ora o forse per qualche giorno. Quella è stata l’esperienza più difficile, lo ammetto, ma quando fai questo tipo di reportage, sali sulla storia, ti lasci trascinare dall’onda e non sai quello che può accadere.

Nella sua carriera si è occupato di guerre, omicidi, droga, rapimenti e altri crimini in Europa, Africa, Asia e America. Il momento più rischioso?
Con Le Iene andai a prendere un ragazzo a Nairobi: era stato preso in ostaggio dalla sua famiglia per via di una storia d’amore che volevano a tutti i costi ostacolare. Lui era somalo ma con passaporto inglese, lei italiana. Di notte entrammo nel quartiere somalo di Nairobi e lo abbiamo liberato. Ma di cose assurde e rischiose ne ho fatte molte, anche in Siria. Lì per lì non ci pensi tanto, sei trascinato dalla storia. Solo dopo capisci il pericolo. Ma ammetto che in Sudafrica mi sono spaventato tanto.

Trent’anni dopo il Rainbow Nation, il boom culturale ed economico che cambiò il Sudafrica e non solo, che cosa resta?
Un fallimento epico. Le crime rates sono peggiorate, i rapimenti sono stati 15mila solo lo scorso anno, ci sono decine di omicidi ogni settimana. Mandela ha lasciato un’eredità importantissima e pesante che però è stata dissipata da un’élite di politici neri che non si sono occupati del popolo. Che fa la fame, soffre, che vede amici e vicini di casa morire in percentuali spaventose.

Tra le cicatrici di Cape Town, qual è quella che l’ha impressionata di più?
Quanto poco valga la vita umana in questi posti. Si litiga per soldi, per inezie, basta niente per innescare scintille che diventano fuochi ingestibili. Le persone non piangono nemmeno più per una morte, scrollano appena le spalle. E poi mi hanno colpito le contraddizioni estreme: le baraccopoli con un bagno a cielo aperto per mille persone e, poco distanti, campi da golf e vite extralusso.

Non è la prima volta che racconta le diseguaglianze sociali, le gang criminali, le vite al limite. Le criminalità nel mondo si assomigliano?
Sì, c’è un aspetto infantile che torna negli atteggiamenti così come nei graffiti che disegnano sui muri. Li lega il fatto di essere stati quasi sempre dei bambini ignorati o maltrattati, di aver vissuto un’infanzia a metà. Sono cresciuti fisicamente ma coltivano un dolore che ha origine nel degrado e nella povertà. Per questo scelgono, o sono costretti a scegliere, la vita criminale: si illudono di essere qualcuno che non sono, per non morire da anonimi in una periferia qualunque.

I social che ruolo giocano?
Uniformano, connettono, spingono all’emulazione. Le gang di Cape Town hanno copiato tutto da quelle americane, i tic peggiori, i cliché, le ossessioni, persino i nomi che richiamano i gruppi rap. Ed ecco che sul braccio di un ragazzo delle baraccopoli ho riconosciuto il tatuaggio con la scritta “the choosen one”, dal soprannome di LeBron James. Lui che era uno degli ultimi tra gli ultimi di una baraccopoli malfamata si era tatuato “il prescelto”. C’è anche un’altra cosa che mi ha stupito.

Cosa?
Mentre giravamo, un ragazzo mi ha riconosciuto: “Mister YouTube”. Aveva visto Gli zombie di Nairobi, un documentario a puntate sui ragazzi di strada che sniffano la colla, che ha raggiunto i 50 milioni di visualizzazioni. Fa effetto che qualcuno ti riconosca anche in una baracca dall’altra parte del mondo.

Quando la riconoscono in Italia, invece, che cosa le chiedono più spesso?
La frase più ricorrente fino a qualche anno fa era: “Sei quello delle Iene”. Adesso mi riconosco dalla voce e mi chiedono dei podcast. L’approccio è molto cambiato: non vogliono un selfie, preferiscono parlare. Le storie entrano in profondità e la voce ha un potere speciale.

Oltre che autore e ideatore, è un grande fruitore di podcast?
Lo ero. Dopo una grande abbuffata, da tempo ho quasi smesso. Ascolto poche cose, tipo Indagini di Stefano Nazzi. Ho uno standard molto alto e trovo pochi prodotti di qualità ultimamente.

I suoi figli ascoltano i suoi lavori?
Li coinvolgo, gli racconto le novità, gli faccio ascoltare le puntate in anteprima. Il riascolto lo faccio quasi sempre in macchina e mi segno le cose da correggere. Per esempio, Dove nessuno guarda, il podcast su Elisa Claps, lo abbiamo ascoltato in auto durante una vacanza e mi hanno riempito di domande. “Questa è una bomba”, mi ha detto mio figlio Sebastian. Ho pensato: “Se sono riuscito a tenere alta l’attenzione di un undicenne, è fatta”.

Sta lavorando a un nuovo podcast?
Sì, è incentrato sulla tragedia di Rigopiano. Quando è uscito il podcast Il dito di Dio, quello sull’incidente della Concordia, in molti mi hanno scritto di raccontare ciò che è accaduto a Rigopiano. Ho sentito la temperatura, ho colto il suggerimento: è una storia tragica, con molti elementi di racconto. C’è un mondo prima e un mondo dopo quella catastrofe.

Le è mai stata “scippata” una storia a cui teneva?
Quando facevo il giornalista sì. Proponevo idee e me le ritrovavo scritte da un altro… capitò diverse volte che un giornalista famoso di un importante settimane firmasse il mio pezzo. Ma è uno di quei calci in culo che servono per capire il perimetro della cattiveria o dell’opportunismo. Meglio quelli delle delusioni enormi.

Lei non compare più nell’organigramma di Chora Media. Ha lasciato la società di cui è stato la voce di punta e responsabile creativo?
(silenzio) Sì… già da qualche tempo. Ma sono già al lavoro per finire i progetti ideati con Chora e con Sky, tra cui appunto il podcast su Rigopiano. Poi ci saranno delle novità interessanti ma per ora non posso e non voglio dire di più.

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