Le torture al carcere di via Tasso, un nome che faceva rabbrividire chi combatteva i fascisti e i nazisti. La paura di essere arrestati, portati in carcere e poi chissà dove, e per fare quale fine. La festa della Liberazione che significava anche la fine delle guerre, tutte volute da Benito Mussolini. Per tutti la gioventù sacrificata per una causa più grande: il futuro di libertà e democrazia per le generazioni future. I racconti dei partigiani rischiano di assomigliarsi, eppure le testimonianze di chi ancora può festeggiare il 25 aprile rendono vive privazioni e scelte di vita in nome della libertà che i libri di storia non rendono del tutto. Ilfattoquotidiano.it ha voluto sentire ancora una volta cosa significarono la Resistenza e la Liberazione dal fascismo e dal nazismo per i giovani che allora quella lotta l’hanno combattuta. C’è Iole Mancini, una delle poche a essere sopravvissute dopo essere passati dal luogo di tortura di via Tasso, dove oggi si trova il Museo della Liberazione. C’è Gustavo Malaguti, che partecipò alla Resistenza di Bologna: non ha problemi a dire che, sí, fu una lotta anche armata e subito dopo però racconta di quando fece scappare un nazista, dopo averlo ben disarmato. C’è Mirella Alloisio, staffetta partigiana di Genova, che entrò nella Resistenza a 17 anni e dice ancora, ora che ne ha raggiunti 98, che il giorno in cui fu liberata la sua città è ancora “il più bello della sua vita”. Il 25 aprile è ancora e per sempre il loro giorno: è in questa data l’Italia rinnova la riconoscenza senza tempo a tutti i partigiani che combatterono per libertà e democrazia. (Diego Pretini)
***
Iole Mancini, la sopravvissuta di via Tasso
La sua prima azione da partigiana è stata al Colosseo dove andò a prendere delle armi da portare dall’altra parte della città. Iole Mancini, 104 anni, parla con una voce flebile, sommessa ma non ha smesso di andare nelle scuole dove “i giovani cambiano lo sguardo mentre gli parlo. Vedo nei loro occhi interesse, persino qualche lacrima. Loro non si rendono conto di cosa sia stata la guerra”. Iole Mancini è stata una degli antifascisti sopravvissuti alla detenzione del carcere (e luogo di tortura) di via Tasso: è l’ultima testimone in vita di quel posto di sofferenza e di dolore. Le capitò pure di essere interrogata da Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine. La sua storia di Resistenza iniziò il 5 marzo 1944, all’età di 24 anni, quando sposò il suo grande amore, Ernesto Borghesi, membro dei Gap (Gruppi di azione patriottica), 26enne. Borghesi fu tra gli autori dell’attacco alla colonna di militari dell’esercito tedesco in via Rasella e cadde nelle mani della polizia il 7 aprile 1944, dopo un fallito attentato a Vittorio Mussolini, fuori dalla sua residenza di via Lima.
In quell’occasione vennero catturati, con Borghesi, Marisa Musu e Pasquale Balsamo. Borghesi riuscì ad evadere dal carcere di Regina Coeli e, per rappresaglia, i tedeschi arrestarono tutta la sua famiglia, tra cui sua moglie che finì in prigione. Quelle ore la partigiana Mancini le ricorda molto bene: “Scoprii di essere stata interrogata da Priebke dopo qualche tempo. Quella notte avevo saputo solo che un ufficiale mi avrebbe posto delle domande, con l’aiuto di un interprete ma non li vidi in faccia perché mi avevano puntato un faro negli occhi. Non ho mai parlato, tuttavia. Non ho mai detto nulla perché avevo fatto una promessa a mio marito. Non potevo tradirlo. Qualunque cosa fosse successa dovevo mantenere onore a quell’impegno”.
Ancora dopo tutti questi anni, quando nomina Ernesto, a Iole si illuminano gli occhi: sorride fiera di aver avuto accanto quell’uomo che la portò a fare la scelta partigiana. A 104 anni non prova alcun odio verso i fascisti ma rabbia soprattutto per chi oggi “con un altro nome, con una maschera tenta di fare il bello e brutto tempo come vuole”. Per lei il 25 aprile resta indimenticabile: “Quel giorno ero a Porta San Paolo da dove partì la lotta contro l’invasore. Finalmente per l’Italia era finito un incubo. Una festa per tutti ricordando quei compagni che avevano perso anche la vita per arrivare fin lì”. Mancini, medaglia d’Argento, autrice del libro Un amore partigiano, guarda all’oggi, anche alla politica odierna: “Non sanno. Non hanno conosciuto quell’atmosfera che ho vissuto io. Non sanno cosa significhi la fame, la disperazione. Spero che con il passare del tempo si rendano conto di cos’è stato il fascismo. L’Italia non può dimenticare”.
Qui la testimonianza di Iole Mancini sul portale Noipartigiani.it
Gastone Malaguti, il Biondino di Bologna
“Il mio nome di battaglia era Biondino e per anni quando mi chiamavano Gastone per strada, anche dopo la guerra, nemmeno mi giravo”. Gastone Malaguti non ha mai smesso di fare il partigiano. A 98 anni continua a lottare perché quel 25 aprile non resti una data del calendario ma una storia da vivere ogni giorno. “La mia città – racconta a IlFattoQuotidiano.it – venne liberata il 21 aprile 1945 ma il 25 fu un grande giorno di festa per Bologna. Sfilammo per le strade tra gli applausi e le urla della gente fino ad arrivare in piazza. Ricordo che avevo nella fodera della tasca del giubbotto una pistola e un americano mi chiese se gliela volessi vendere”. Ascoltandolo sembra di rivedere uno di quei documentari in bianco e nero che vanno in onda la sera tardi ma per il partigiano Malaguti quella che scorre nei suoi ricordi è la sua vita.
A sconvolgere la sua esistenza da bambino fu David, un suo compagno di classe. Da un giorno all’altro non venne più a scuola perché era ebreo. Gastone protestò e un caporione fascista lo prese per le orecchie e lo buttò fuori dall’aula: quindici giorni di sospensione. Non ci tornò più nemmeno lui in quella scuola perché il nonno socialista lo iscrisse ad una privata. Nel 1943 decise di entrare nella settima brigata partigiana e fu uno dei protagonisti della battaglia di Porta Lame, una delle più famose. E’ lui stesso a raccontarcela: “Era il settembre del 1944 e le truppe alleate ci fecero sapere che ormai si trovavano a soli quindici chilometri dalla città. Prendere Bologna era molto importante per questo tutte le truppe dei Gap dovevano farsi trovare lì. Noi avevamo avuto informazione che l’Ospedale maggiore di Bologna era stato raso al suolo ma i sotterranei erano ancora perfettamente agibili. Ci sistemammo lì in 230. Restammo in quel luogo asserragliati per settimane in attesa degli alleati che non arrivarono. Altri settanta occuparono una palazzina poco distante da noi. Un nostro compagno venne scoperto e i tedeschi attaccarono la palazzina ma quando entrarono non trovarono più nessuno perché i nostri compagni erano riusciti a fuggire. A quel punto uscimmo in maniera rapida e circondammo noi il palazzo preso dai fascisti. A Porta Lame, le Brigate nere e i tedeschi subirono le perdite maggiori. Ancora oggi ci sono le tracce delle bombe incendiarie che tirai io”.
Gastone Malaguti è fiero di ciò che ha fatto: ammette di aver ucciso ma mai torturato nessuno. “Un giorno presi un tedesco. Sapevo parlare un po’ la loro lingua e mi disse che per lui Hitler era una merda. Gli feci metter le mani sulla testa e mi feci consegnare le armi, poi lo liberai”. Nel 1945 con la fine del conflitto mondiale Gastone si recò in Germania per il recupero dei beni confiscati dai nazisti. Il resto della vita l’ha trascorso impegnandosi come sindacalista. Se guarda all’oggi ha un solo pensiero: “Se Ignazio La Russa malauguratamente dovesse diventare presidente della Repubblica me ne andrei dall’Italia”.
Qui la testimonianza di Gastone Malaguti sul portale Noipartigiani.it
Mirella Alloisio, la staffetta “Rossella” di Genova
“Il 25 aprile del 1945 ero a Genova e ho partecipato alla liberazione della città. E’ stato il giorno più importante della mia vita”. A parlare è Mirella Alloisio, 98 anni, ultimo nome di battaglia Rossella in memoria dei fratelli Carlo e Nello Rosselli uccisi a Bagnoles-de-l’Orne il 9 giugno 1937 da formazioni locali di estrema destra, forse su ordine dei fascisti italiani. Al telefono si emoziona ancora anche se il racconto di quelle ore l’ha fatto centinaia di volte sui palchi e nelle scuole. Sono parole piene di orgoglio: Rossella che oggi è una delle poche testimoni di quegli eventi che hanno portato alla resa dei tedeschi nel capoluogo ligure. “Entrai nelle file partigiane a 17 anni. Ero stanca di guerre del fascismo. Non ne potevo più di vedere donne in lutto. La mia famiglia era antifascista. Incontrai lo zio di una mia amica che mi invitò a una riunione in casa di un’operaia. Da quel momento decisi di far parte della Resistenza in maniera attiva con il compito di organizzare i gruppi di difesa della donna. Mi proposero di trasferirmi in Liguria alla segreteria organizzativa del Comitato di liberazione dove incontrai Gianni Burlando che faceva lo stenografo delle riunioni e Stelvio Zanni che aveva il compito di trovare le sedi. A me affidarono la missione di tenere i contatti con tutti i nostri Cnl di Ponente e di Levante”.
Un lavoro che impegnò Mirella Alloisio fino all’ultimo giorno di guerra. Per lei fare la staffetta partigiana era una scelta fatta con consapevolezza. Prima di chiamarsi Rossella ebbe come nome di battaglia Olga ma fu costretta a cambiarlo perché un partigiano arrestato fece la spia. Aveva paura di essere arrestata ma non si arrese mai. Lo ripete in tutti i modi: “Feci quella scelta perché Mussolini ci riempì di guerre, in Abissinia, in Africa”. Ricorda ancora oggi quei viaggi clandestini: “Mi diedero una borsa a doppio fondo dove mettevo i documenti e sopra dei libri di latino o filosofia”.
Fino a quei giorni della liberazione: “Finita la guerra la Resistenza ha dimostrato che il fascismo era un disastro. Abbiamo riconquistato la pace e la democrazia. E’ il giorno della vera libertà. E’ stato ricco di emozioni”. Racconta: “La mattina del 23 mi toccò aprire la busta del Cnl e lì trovai l’immagine di san Nicola. Voleva dire che dovevamo trovarci tutti al Collegio San Nicola, dove si erano tenute le prime riunioni del Comitato di Liberazione regionale. La mattina del 24, all’alba partii a piedi da Sestri Ponente, dove abitavo, per raggiungere la Circonvallazione a Monte dove c’era il Collegio. Questo viaggio lo feci in mezzo alle sparatorie: arrivai a destinazione sudata e stanca, mancava anche l’acqua. Mi piazzarono subito al telefono. Arrivò una telefonata del cardinale di Genova che diceva che il maggiore Meinhold, comandante delle forze armate tedesche, era disposto a incontrare il Cnl per trattare. Rispose Taviani (rappresentante della Dc nel Cnl) al cardinale di Genova: avrebbero trattato con lui se fosse venuto a incontrarli”. E poi finalmente il 25 aprile: “Il Cnl si era trasferito all’hotel Bristol e assistemmo alla sfilata delle forze armate tedesche senza armi, guidate dai partigiani che avevano come unica divisa un fazzoletto tricolore al collo. La prima volta nella storia che un esercito regolare si arrendeva a uno clandestino”.
Qui la testimonianza di Mirella Alloisio sul portale Noipartigiani.it