di Valerio Mirarchi

Il disegno di legge sull’autonomia differenziata ha tanti pro e tanti contro e giustamente sta scatenando discussioni accese in tutta la nazione. Non voglio entrare qui nel merito della riforma. Quello su cui mi preme dire qualcosa riguarda la strategia con cui la sinistra sta ormai da molti mesi cercando di combattere l’autonomia. Per l’opposizione l’autonomia differenziata “rompe l’unità nazionale” (De Luca), al punto che toccherebbe “richiamare Garibaldi” (Bersani) se fosse attuata, come se fosse un tradimento del Risorgimento che ha costruito questo paese.

Bisognerebbe forse ricordare che nel Risorgimento italiano c’era un grande filone fatto dal fior fiore degli intellettuali e dei patrioti dell’epoca che si battevano per un’Italia federale, tra l’altro trasversali alle ideologie politiche: Carlo Pisacane (socialista libertario), Carlo Cattaneo (repubblicano del primo Partito d’Azione), Giuseppe Ferrari (filosofo di sinistra), Vincenzo Gioberti (cattolico), Pietro Calà Ulloa (storico napoletano e ultimo Presidente del Consiglio del Regno delle Due Sicilie), Vincenzo d’Errico (avvocato meridionale), Bettino Ricasoli (secondo Presidente del Consiglio del Regno). Per quanto oggi possa sembrare strano, all’epoca il pensiero federalista era diffuso soprattutto nel Meridione, dove c’era coscienza della diversità storica e culturale nei confronti dei piemontesi, mentre il pensiero centralista dominava il nord-ovest, dove si voleva un controllo di tutta l’Italia da parte della dinastia Savoia.

Il fatto che abbia vinto il filone centralista su quello federalista non implica che il primo fosse migliore del secondo, soprattutto leggendo la storia col senno di poi. Il fascismo sfruttò a pieno il fatto che il Regno d’Italia fosse una nazione centralista e fu facilitato nell’impresa di prendere il potere da ciò. Ovviamente durante il Ventennio il centralismo italiano toccò il suo apice, per poi diminuire progressivamente col tempo. I costituenti videro chiaramente i pericoli del centralismo e difatti la storia della repubblica è una storia che va progressivamente nella direzione della devoluzione dei poteri dal centro alle regioni.

Da siciliano, provo un po’ di vergogna del modo in cui le élite politiche meridionali stanno sostanzialmente rivendicando la necessità di essere sussidiate per sopravvivere. Nel 1861 nord e sud Italia avevano gli stessi livelli di sviluppo e di ricchezza. Quello che cambiava erano le potenzialità di sviluppo: gli abitanti del nord erano più alfabetizzati, il nord aveva più ferrovie ed era più vicino all’Europa centrale e nordica, i terreni agricoli del nord erano in condizioni più produttive grazie a secoli di cure dei contadini locali, la mentalità imprenditoriale era più diffusa per ragioni storiche. Almeno i primi due fattori erano responsabilità delle élite dell’ultimo secolo e potevano facilmente essere sovvertiti. Per una serie di ragioni però il nord si sviluppò più del sud, i meridionali pensarono che l’Unità d’Italia li avesse svantaggiati e cominciò ad espandersi il mito della povertà atavica, da cui discende l’anti-federalismo dei meridionalisti di oggi.

La verità era che le forme arretrate in cui si era arenata l’agricoltura e tutta l’economia del Sud non davano ai meridionali gli strumenti per cambiare le proprie condizioni. Gaetano Salvemini (1873-1957), socialista e antifascista, pensava che la soluzione alla questione meridionale sarebbe potuta passare solo attraverso il federalismo, costruendo una classe dirigente meridionale che sapesse fare gli interessi del Meridione. È perciò sconfortante che oggi i “meridionalisti” vedano l’unica salvezza del Mezzogiorno nei trasferimenti di denaro (che tra l’altro continuerebbero ad essere erogati con questa autonomia differenziata attraverso strumenti come i Lep).

Finché il Sud sarà governato con questa mentalità dalla sua classe politica, non ci sarà speranza sul fatto che possa convergere con il Nord.

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