di Tito Borsa
Secondo 25 aprile dell’era meloniana. Sono in tanti a paragonare questo governo, l’esecutivo più a destra della storia repubblicana, al regime fascista. Per fortuna non è così: il fascismo è una cosa terribile e seria, mentre il governo Meloni – a parte qualche sparuta eccezione – sembra essere un album di figurine dal titolo “Gli scappati di casa”. Pensate che Mussolini aveva personaggi come Giovanni Gentile all’Istruzione e Alfredo Rocco alla Giustizia. A noi toccano rispettivamente Giuseppe Valditara e Carlo Nordio. Traete voi le dovute conseguenze.
Fatte queste premesse, però, due riflessioni sono d’obbligo. La prima riguarda una vecchia frase di Indro Montanelli, non certo un incorreggibile comunista: “Gli italiani non sanno andare a destra senza finire nel manganello”. Era il 2001 e ci si riferiva alla destra di Silvio Berlusconi, ma è impossibile non ripensare a quelle parole di fronte alla sistematica repressione del dissenso che ha caratterizzato il primo anno e mezzo del governo Meloni.
La seconda riguarda invece la natura intrinsecamente conformista di qualunque regime, che tende inevitabilmente all’omologazione al modello considerato “giusto”, mentre viene isolato e discriminato chiunque non possa o non voglia adeguarsi a quello standard. Nonostante non ci sia alcun pericolo di ritorno al Ventennio (basti pensare agli ottimi rapporti tra il governo Meloni e gli Stati Uniti), è inevitabile pensare a come questo esecutivo si faccia portatore del modello “corretto”, a cui il bravo cittadino dovrebbe adeguarsi.
Fratelli d’Italia viene da quel mondo lì. Gianfranco Fini aveva preso le distanze dal neofascismo ai tempi di Alleanza Nazionale, ma è inevitabile che una parte dell’elettorato nostalgico si rivolga a loro se non vuole sprecare il proprio voto con partiti e movimenti ancor più estremi – che fortunatamente non entrano mai in Parlamento. E Giorgia Meloni è una presidente del Consiglio “a-fascista”: viene dall’ambiente della destra sociale erede di Giorgio Almirante e, semmai si dichiarasse antifascista, perderebbe parte dei propri voti.
Sono passati quasi ottant’anni dalla nascita della Repubblica, dalla fine della guerra e dalla caduta del regime e per molti italiani è ancora problematico dichiararsi antifascisti, quando invece l’antifascismo dovrebbe essere uno scontato valore fondante dato il quale si può iniziare a discutere di idee diverse. E la destra ha da sempre, con qualche eccezione, strizzato l’occhio a quella parte dell’elettorato che proprio non ce la fa a dichiararsi antifascista. Silvio Berlusconi, per esempio, che sicuramente non era un fascista, ha più volte trattato con leggerezza il tema del Ventennio: “Mussolini mandava la gente a fare vacanza al confino”, “Forse Mussolini non era proprio un dittatore”. E questa leggerezza legittima chi continua a sottovalutare l’antifascismo come valore fondante della nostra Repubblica.
Il governo Meloni non è un esecutivo di stampo fascista, anche volendo non ne avrebbe la stoffa, fortunatamente. Ma è indubbio che con gli autoritarismi condivide l’espressione di un modello a cui il buon cittadino deve adeguarsi. Gli outsider, coloro che non possono o non vogliono adeguarsi a tale modello, vengono esclusi. Basti pensare alla ministra della Famiglia Eugenia Roccella, che è stata portavoce di quei dinosauri ideologici del Family Day.
Abbiamo festeggiato questo 25 aprile contestando questo governo che condivide alcune caratteristiche con le tante forme di fascismo. Per citare Umberto Eco, il fascismo originario ha tra le sue caratteristiche la “paura della differenza” che porta all’avversità nei confronti degli “intrusi”, che sono coloro che non vogliono adeguarsi al conformismo di regime.
Fascismo fa rima con conformismo. Ed è quest’ultimo il più grande problema di questo governo. La democrazia è conflitto tra idee, esaltazione della differenza e dell’unicità dell’individuo. Il conformismo è il contrario di tutto questo.