Nel mio ultimo intervento dedicato al rapporto tra musica e intelligenza artificiale avevo posto il problema dell’autorialità e della emulabilità dei diversi generi musicali. Qui vorrei invece evidenziare alcune problematiche insite alla formazione in ambito creativo. Da quando l’homestudio ha cominciato a diffondersi a macchia d’olio, la tecnologia ha compiuto passi giganteschi e recentemente sono stati introdotti i primi sistemi di intelligenza artificiale musicale con una ulteriore espansione delle già ampie possibilità a disposizione dell’utilizzatore. Da compositore sono ovviamente molto incuriosito. In qualità di docente, tuttavia, sono piuttosto preoccupato per la prematura introduzione di strumenti, semplici nell’uso e gratificanti nel risultato, durante fasi didattiche in cui, secondo me, occorrerebbe assolutamente farne a meno.

I programmi di vent’anni fa erano molto limitati rispetto agli attuali, e questo divario, che all’epoca era consistente anche nei confronti delle attrezzature più sofisticate, costringeva ad un notevole sforzo creativo. Naturalmente, se è inevitabile che il bisogno aguzzi l’ingegno, lo è altresì rapportarsi a ciò che la realtà ci mette a disposizione nella nostra epoca. Non avrebbe senso usare ancora l’olio di ricino, la bussola, il fax, o l’asinello. Tuttavia, in ambito didattico esiste una necessaria progressività con la quale gli strumenti, anche concettuali, andrebbero sempre introdotti e questa gradualità andrebbe maggiormente preservata in anni in cui i danni cognitivi da “sindrome della pappa pronta” iniziano ad essere finalmente documentati. Mi si perdonerà una breve, ma indispensabile digressione tecnica.

Esiste una tipologia di programmi la cui filosofia è quella di restituire il suono e le articolazioni di uno strumento musicale su una tastiera (o controller) suonando la quale diamo vita ad una nostra esecuzione. Concettualmente non è molto diverso da un alfabeto da cui attingiamo le lettere per scrivere una frase. Esistono tuttavia altri software che propongono direttamente frasi musicali compiute (loop o pattern) che noi selezioniamo, assembliamo ed eventualmente modifichiamo. Restando all’analogia dell’alfabeto, il programma ci offre delle frasi già scritte, e non più semplici lettere con cui comporle.

Immaginiamo di costruire una casetta con dei Lego; un conto è assemblarne una montando uno ad uno i mattoncini di base, altro è farlo avvalendosi di moduli pre-assemblati (mura, tetto, pavimento) forniti direttamente dal produttore. In questa logica, quando ci verranno proposte le casette già pronte, potremo agevolmente creare un quartiere. Qualora il produttore ci fornisse un quartiere, dar vita ad un’intera città sarebbe ovviamente più agevole. Sebbene questa modalità d’implementazione modulare esponenziale sia tanto preziosa quanto inevitabile in diversi settori dello scibile umano (biologia, edilizia, programmazione, ecc.), nell’ambito della didattica finalizzata alla creatività questa pratica rischia di tramutarsi in una vera sciagura.

Esiste infatti, a mio avviso, un drammatico problema di consapevolezza. Consapevole, in senso arcaico vuol dire connivente, complice ed in senso più attuale, cosciente di una situazione e dei suoi possibili sviluppi. Assemblando una casetta pezzo per pezzo impieghiamo sicuramente tempo e fatica, partecipando tuttavia di una serie di passaggi che ci consentono di arrivare, con cognizione di causa, alla realizzazione del modulo finale. Qualora decidessimo di modificarne uno (tetto, muro, pavimento) saremmo in grado di farlo in modo cosciente e coerente, nonché più rapido ed efficace rispetto ad una persona che, a ben vedere, non avrebbe forse neppure contezza del fatto che quei moduli sono il risultato di un assemblaggio, e quindi eventualmente decostruibili.

Chi conosce la sintassi e la logica sottesa alla propria lingua utilizzerà ChatGPT in modo più efficace e produttivo di chi vi si affida in modo oracolare. Un grafico professionista parteciperà della realizzazione di un’illustrazione considerando aspetti e fattori di cui altri non possono neppure immaginare l’esistenza. Chi programma sa perfettamente che un conto è lavorare con blocchi di codice già scritti (moduli) un conto è scrivere le proprie linee di codice da zero. Analogamente, se utilizzo un “software musicale intelligente” per generare delle progressioni armoniche senza avere alcuna idea di come funzioni il sistema tonale, difficilmente potrò comprendere le potenzialità del materiale proposto dalla macchina, né tanto meno intervenire su di esso in modo efficace.

Il problema è che la didattica, a tutti i livelli, più che dettare l’agenda sembra essersi ridotta ad inseguire l’ultima novità tecnologica, temendo di restarne esclusa. Ma allora dove si forma più l’uomo, l’autore, l’artista, il professionista? Nel corso d’aggiornamento o sul tutorial di Youtube? Siamo invasi da pubblicità come: “Scrittore in una settimana”, “Grafico in dieci lezioni”, “Compositore subito”. Invece di flirtare con questi abomini didattici (sebbene con piccoli distinguo legali) le università dovrebbero puntare, oggi più che mai, a formare professionisti d’élite senza cedere alle lusinghe di pericolosi e ingannevoli slogan.

La storia ci insegna che, a volte, il miglior modo di progredire è quello di fermarsi un momento, guardarsi indietro e meditare seriamente su cosa sta succedendo davvero e non di rado di riprendere vecchi sentieri che erano stati abbandonati. La potenza di calcolo offertaci dall’intelligenza artificiale è un’assoluta benedizione per alcuni settori, ma non necessariamente tutti, ed occorrerebbe cominciare a fare dei distinguo per non cadere preda di atteggiamenti fideistici e prerazionali volti a collocare sistematicamente tutto il bene e il male, o da una parte, o dall’altra. Più questi strumenti diventano raffinati, più occorre che i loro utilizzatori padroneggino la logica e le fasi che li sottendono, soprattutto in ambito creativo. Diversamente, sebbene ricorrendo a strumenti più cool, i compositori del futuro, più che parenti dei grandi autori del passato, finiranno col somigliare ai mendicanti che nella Parigi degli inizi del XX secolo andavano in giro con il piano a manovella.

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