Speriamo che nessuno si offenda se di Bernardo Bertolucci in Challengers non ci troviamo nemmeno un’unghia di un piede. Per carità, nessuno è obbligato a rievocare o ispirarsi a chicchessia. Certo è che dopo aver letto l’universo mondo della critica italiana (quella statunitense, per sua fortuna, non si trascina dietro questi paradigmi-fardello) sembrava che la scenetta vista nel trailer, quella del triangolino amoroso Zendaya-Mike Fiast-Josh O’Connor sul letto di lei, fosse una specie di minuscolo prodromo di un desiderio e di una esposizione di corpi ed emozioni libertarie che sarebbero poi esplosi nel film. Invece, e ancora nessuno si offenda, quella scena è forse la più goffamente audace (mistero sulla R della censura Usa, ovvero minori di 17 anni accompagnati…) perché Challengers di sangue che ribolle in parti poco nobili ne produce giusto qualche briciola, anzi invece di un torbido bertoluccismo penzolante qua e là sembra voglia correre su e giù a livello di tempo e di senso modello “segreto del mio successo” alla Michael J.Fox anni ottanta.
Una commedia a sfondo sportivo quasi agonistico, lucidina e lucidata che strizza sagacemente l’occhio al risvoltino romantico. Tennis (su cemento), racchette, palline, stille di sudore su fronte e muscoli degli atleti in un leggerissimo menage (apparentemente) a trois tra due tennisti ex amici (o forse mai nemici), la loro preda (sicuramente predatrice) e la sempiterna ambizione sportiva. Ai giorni nostri durante i primi scambi della finale di un torneo ATP Challenger, il campioncino in crisi Art Donaldson (Mike Faist) incontra l’eterno rivale e, appunto, amicone fin da adolescente sui campi e fuori, Mike Zweig (Josh O’Connor). A bordo campo, in prima fila, vestita come Grace Jones in 007, c’è Tashi Duncan (Zendaya), giovanissima campionessa anche lei, carriera interrotta per un ginocchio frantumato in campo, oggi moglie e allenatrice di Art, ieri fidanzata di Mike. Ma per capire le smorfie di quel musetto adombrato tra il pubblico dobbiamo arrotolare un lungo, frammentario, finanche caotico flashback, che ci fa tornare a 15 anni prima dove Art e Mike se la ridevano vincendo in campo, e in doppio, tipo funamboli. Ai loro occhi però brilla solo la luce della collega Tashi. Ecco, per riconfigurare il peso e la direzione di Challengers bisogna però fermarsi qui perché di fondo è questo il bivio dal quale il film non plana mai. Perché il modo con cui Art e Mike guardano Tashi è come quello di un bambino che desidera un oggetto – un pallone o un gelato – e non come si desidera un essere umano a livello carnale.
In realtà Challengers risulta più riuscito se letto come un cifrato, carsico e seminascosto rapporto omoerotico continuamente rimandato tra Art e Mike: il lancio e la distruzione ostentata delle racchette, l’uso smisuratamente allargato di un senso di competizione in realtà sublimato, giocosamente accettato, anzi mai vissuto in chiave oppositiva (non raccontiamo il finale, ma sembra una trovata comica tra la beffa di un Billy Wilder e Woody Allen). Tanto che la vera furia, a sua volta emotivamente asettica e un tantino sterile, è proprio Tashi che vuole orientare carriere professionali e vite sentimentali come farebbe uno scienziato in laboratorio. Insomma, se Challengers risulta carente di pulsazioni e brividi erotici, mostra però ancora una volta come Guadagnino sia un cineasta stilisticamente avanti mille chilometri rispetto ai coevi italiani e serenamente nella mischia di Hollywood un po’ come fece Muccino più di vent’anni fa. Assieme al direttore della fotografia Sayombhu Mukdeeprom, il cineasta palermitano sceglie una strada curiosa e peculiare, ad esempio, nel ricostruire i match in campo, fornendo una soluzione di frontalità della macchina da presa energica e rutilante rispetto ai tennisti, che divide il campo in due, lasciando da parte la (complessa) riproduzione realistica laterale (modello ripresa tv) del gesto sportivo (un diritto, un rovescio, ecc). Sguardo che in alcuni momenti di intensità agonistica si ribalta e si scioglie in soggettive dei singoli sottopelle, arrivando persino all’azzardo comunque performativo della soggettiva di una pallina da tennis che viaggia nell’aria con fare da protagonista impazzito.