In coincidenza delle celebrazioni resistenziali del 25 aprile è venuta intensificandosi la pressione nominalistica volta a ottenere da Meloni e soci la propria autocertificazione di “antifascismo”. L’ennesima attribuzione alle etichette di una funzione salvifica, tale da eleggerle a vera e propria Lourdes linguistica. Come se il fascismo storico avesse ancora una valenza paradigmatica riproponibile paro paro nel XXI secolo.
Forse questo può valere per un sopravvissuto di un’altra generazione – come nel caso di Ignazio La Russa – non certo per la sua figlioccia in spirito, la bulletta pigliatutto Giorgia, cresciuta in altri tempi. Dunque caratterizzata da un profilo culturale marchiato dall’oscurantismo di destra di quest’epoca, in cui il mussolinismo è soltanto folklore: un arcaico simbolismo di cui ormai gli stessi praticanti ignorano i significati. Semplicemente gli umori retroversi di un ceto-medio-basso ossessionato dal ripristino dei riferimenti certi (dio, patria, famiglia. E perché no? Patriarcato, con relativo dualismo di genere, bloccato sul binomio eterosessuale maschio/femmina), che la lunga stagione progressista, intesa come minaccia per l’ordine presunto “naturale”, aveva iniziato a liquidare (mobilità sociale e accoglienza, liberazione sessuale, disincanto critico e desacralizzazione, prevalenza dei diritti sui doveri).
Basterebbe una parolina per trasformare in tolleranza l’apparato repressivo di chi ha nostalgia di società-caserme, dove i divergenti/diversi vengano immediatamente rimessi al proprio posto e compito del potere è riportare all’indietro le lancette della storia? Interrompere la corsa allo sbaraccamento di assetti benevoli e generosi in cui è impegnato questo governo color nerofumo? Non pare plausibile, visto che – tra l’altro – per la bulimica di voti Giorgia pronunciare tale parolina significherebbe rompere con la propria base di consensi, su cui poggia un’ossessiva strategia di accreditamento personale nelle sedi internazionali (accompagnate dal brivido erotico del bacio di Biden sulla nuca).
Sarebbe un po’ come se il pittoresco generale Roberto Vannacci, dopo aver teorizzato la segregazione scolastica dei disabili, aggiungesse, “e lo dico in quanto antifascista”. Quasi che la formuletta di prammatica comportasse la redenzione dalla (gratificante ma impegnativa) posizione di Torquemada del Terzo Millennio.
Non funziona così. In politica, come nelle altre faccende umane, solo una chiara contrapposizione può contenere le altrui strategie. A maggior ragione se sono deliranti come quelle che vorrebbero riportare a nuovo pretese revansciste assolutamente anacronistiche. Seppure favorite dalla piega distruttiva che assume questa fase storica.
Ma di seri e intelligenti antagonisti della svolta reazionaria in atto non si vedono tracce. Semmai assistiamo all’inseguimento camaleontico dei progetti demagogici degli arruffa-popolo al potere. Prendiamo l’ultimo obbrobrio: l’autonomia differenziata, promossa dall’odontoiatra orobico Roberto Calderoli e abbracciata dalla premier, che pure si proclama sovranista (e nonostante avesse presentato nel 2014 una proposta di legge costituzionale per l’abolizione delle Regioni). Tale provvedimento si inquadra chiaramente in quella “secessione dei ricchi” che caratterizza il tempo in cui viviamo.
Ma sembra problematico che il Pd possa combattere credibilmente la manovra che riporterebbe l’Italia a una frammentazione feudale (o ai caciccati, direbbe Schlein) visto che – come ha scritto Limes – non è altro che “la formale attuazione di una disposizione costituzionale”. Ossia la modifica del Titolo V della Costituzione nel 2001, che prevede l’attribuzione alle Regioni ordinarie di “forme e condizioni particolari di autonomia”. E chi aveva promosso tale modifica? Il governo Amato II di centrosinistra, come “aiutino” a Francesco Rutelli nella competizione elettorale contro Silvio Berlusconi. Che poi lo massacrò.
Fatto sta che la stirpe dei governanti “consapevoli delle realtà politiche” è stata sostituita da quella per cui “la politica si riduce a gesti appariscenti”. Già dal tempo in cui i giovani leoni del Psi perseguivano la modernizzazione post-democratica ante litteram. E che ora sono solo dei reduci. Tipo il Luca Josi, già leader dei giovani craxiani, che vediamo ogni tanto da Lilli Gruber. Che nasconde la sua melanconia, da chierico a cui è crollata la Chiesa, nelle pratiche comunicative finalizzate a non offrire punti di riferimento che lo rendano inquadrabile per chi lo ascolta. Come altri reduci della sua parte (e magari concittadini genovesi). Vedi il segretario di Claudio Martelli Tonino Bettanini; finito a fare il comunicatore alla corte di Mariastella Gelmini. Quella che ipotizzava un tunnel dal Gran Sasso fino a Ginevra.