La diplomazia israeliana deve fare i conti con una minaccia che, in queste settimane, preoccupa più dei colloqui con Hamas e delle pressioni da parte dei Paesi alleati che chiedono il rispetto della risoluzione Onu su un cessate il fuoco immediato. Secondo fonti governative e funzionari israeliani che hanno parlato sotto anonimato con diversi media internazionali, gli uomini di Tel Aviv sono attaccati ai telefoni per impedire che la Corte Penale Internazionale de L’Aja spicchi un mandato d’arresto per i vertici governativi e militari d’Israele, compreso il primo ministro Benjamin Netanyahu.

La mossa del procuratore Karim Khan, attesa in settimana stando al racconto delle fonti, è legata alle azioni compiute sia da Hamas sia dall’esercito israeliano a partire dal 7 ottobre scorso. Questa, oltre ad avere conseguenze dirette nei confronti dei personaggi coinvolti (si parla anche del ministro della Difesa, Yoav Gallant, e del capo delle Forze di Difesa israeliane, Herzi Halevi), rappresenterebbe un pesante colpo all’immagine internazionale di Israele con il rischio di incriminazioni multiple per crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità.

LE INDISCREZIONI – Da quanto si apprende, lo sforzo profuso dai vertici israeliani per evitare i mandati d’arresto è massimo. Al centro delle operazioni, secondo quanto risulta al Times of Israel, c’è il Consiglio di Sicurezza Nazionale, ma si è mobilitato anche il ministero degli Esteri. Le pressioni sui magistrati de L’Aja non si esaurisce all’interno dei confini dello Stato ebraico, ma arriverebbe anche dagli alleati di Tel Aviv. Uno su tutti: gli Stati Uniti. In questo contesto, le accuse mosse dal procuratore, che in passato aveva solo confermato di svolgere delle verifiche, dovranno essere puntuali e inattaccabili per evitare di diventare vittima di una campagna di pressioni e discredito da parte di chi cerca di insabbiare qualsiasi tipo di indagine su ciò che è avvenuto tra Hamas e Israele dal 7 ottobre scorso in poi. Non è un caso che Karine Jean-Pierre, portavoce della Casa Bianca, abbia già annunciato come gli Usa non supportino “l’indagine della Corte penale internazionale contro Israele. Non crediamo abbia la giurisdizione”.

I mandati d’arresto, comunque, non colpirebbero solo personalità israeliane. Avendo la Corte giurisdizione nei Territori palestinesi, questa giudica anche l’operato di tutte le entità a essi collegate. Così, seppur commesso in territorio israeliano, il massacro operato dai membri di Hamas il 7 ottobre potrebbe comunque essere oggetto d’indagine della Cpi, senza escludere, inoltre, altre azioni messe in atto nei giorni successivi e che possono configurarsi come crimini di guerra: ad esempio la cattura di ostaggi civili portati nella Striscia di Gaza.

A far pensare che le indiscrezioni abbiano del fondamento arrivano anche le parole dello stesso Netanyahu che sui social ha dichiarato che qualsiasi intervento della Corte Penale Internazionale “creerebbe un pericoloso precedente che minaccia i soldati e i funzionari di tutte le democrazie che combattono il terrorismo selvaggio e l’aggressione sfrenata”. Parole apparentemente immotivate, ma che alla luce di quanto emerso sui media potrebbero trovare una spiegazione. “Sotto la mia guida – ha poi aggiunto – Israele non accetterà mai alcun tentativo da parte della Corte Penale Internazionale di minare il suo diritto intrinseco all’autodifesa. La minaccia di sequestrare soldati e funzionari dell’unica democrazia del Medio Oriente e dell’unico Stato ebraico al mondo è scandalosa. Non ci piegheremo”.

PERCHE’ LA CPI HA GIURISDIZIONE – Nonostante Israele, così come gli Stati Uniti, non sia firmatario dello Statuto di Roma del 1998 che ha permesso la nascita della Corte nel 2002, chi ne fa parte è invece la Palestina. Proprio le campagne militari di Israele nella Striscia di Gaza, prima Piombo Fuso e poi l’ancora più sanguinosa Margine di Protezione, spinsero l’Autorità Nazionale Palestinese a chiedere alle Nazioni Unite di poter entrare a far parte del gruppo di 124 Stati che hanno aderito allo Statuto, accettando, tra le altre cose, di favorire le indagini della Corte sul proprio territorio, in questo caso quello riconosciuto dalle Nazioni Unite secondo i confini precedenti al 1967. Così, dal 1 aprile 2015, dopo la conferma dell’allora segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon, la Palestina è entrata ufficialmente a far parte della Corte Penale Internazionale. Già allora la decisione fece arrabbiare Israele che, come ritorsione, decise di congelare 106 milioni di euro di tasse raccolte per conto delle autorità palestinesi.

La giurisprudenza della Cpi prevede che a essere indagati possano essere gli atti compiuti sul territorio di un Paese firmatario, ma basta che ne venga ravvisato solo uno all’interno dello stesso contesto per poter estendere le indagini anche a quelli a esso collegati compiuti in territorio di Paesi terzi. È per questo che il procuratore Khan ha potuto investigare sull’operato di Israele, che ha compiuto le presunte violazioni a Gaza, e soprattutto potrebbe anche perseguire i vertici di Hamas che hanno compiuto uccisioni sommarie di civili in territorio terzo, ossia Israele, ma hanno poi ‘spostato’ il crimine in territorio palestinese portando gli ostaggi nella Striscia.

LE DIFFICOLTA’ DELLA CPI – Se la Cpi decidesse di spiccare un mandato d’arresto nei confronti dei vertici israeliani e di Hamas, arrivare a conseguenze concrete e tangibili non sarà comunque semplice. La Corte non dispone di una sua forza di polizia, ma fa affidamento sulla collaborazione degli Stati firmatari. Non essendo Israele membro dello Statuto di Roma, Netanyahu e gli altri vertici non correrebbero alcun rischio finché rimangono in patria o in Paesi terzi rispetto allo Statuto, un po’ come accade per Vladimir Putin, anche lui raggiunto da un mandato di cattura internazionale. Certo è che la loro possibilità di movimento ne risentirebbe molto e, soprattutto, sarebbe complicato pensare di governare un Paese senza potersi recare nella maggior parte dei Paesi stranieri, con la propria reputazione internazionale che subirebbe un duro contraccolpo.

Chi della reputazione internazionale non ha invece particolare preoccupazione è Hamas. Ma anche in questo caso, nonostante operi all’interno di un’entità parte dello Statuto di Roma, è difficile pensare a ripercussioni concrete sui suoi leader. Molti di essi si trovano all’estero, in Paesi amici che non sono sotto la giurisdizione della Corte, mentre quelli rimasti a Gaza si trovano in una situazione senza precedenti: essendo non solo geograficamente, ma anche politicamente staccata dal resto dei Territori palestinesi, la Striscia non è governata dall’Anp, ma proprio da Hamas che, quindi, difficilmente procederà con l’arresto della propria leadership.

Resta anche da risolvere la questione relativa a eventuali indagini in loco. Le autorità palestinesi avrebbero l’obbligo di cooperare con la Corte, fornendo l’accesso al territorio per svolgere attività d’indagine, inclusi eventuali mandati d’arresto. È chiaro che a Gaza per le autorità palestinesi sarebbe quasi impossibile cooperare con la Corte, sempre che che ne abbiano volontà, senza tenere conto delle difficoltà di accesso al territorio per il blocco imposto da Israele.

LE POSSIBILI VIOLAZIONI – Gli episodi possibile oggetto di indagini da parte della Corte sono numerosi. Ovviamente, se la si guarda dal punto di vista di Hamas, le violenze commesse nel corso dell’attacco del 7 ottobre e la successiva presa degli ostaggi civili sono azioni che rientrano nella categoria dei crimini di guerra. A essi, poi, vanno eventualmente aggiunti, se provati, torture o violenze, anche di natura sessuale, denunciati nei confronti dei prigionieri durante la loro permanenza nelle mani dei miliziani islamisti della Striscia. C’è poi la questione relativa ai sopravvissuti all’attacco: per tutte le vittime rimaste in vita ma gravemente ferite Hamas potrebbe essere considerata responsabile di aver causato volontariamente “gravi sofferenze o serio pregiudizio all’integrità fisica o alla salute”. Per quanto riguarda i raid compiuti in territorio israeliano, invece, si deve considerare che lanciare attacchi contro la popolazione civile non coinvolta direttamente in una guerra o attaccare i loro beni rappresenta un crimine. Senza dimenticare il possibile uso di scudi umani per cercare di limitare l’offensiva israeliana.

Passando ai vertici dello ‘Stato ebraico’, la lista dei possibili crimini è un po’più lunga. Innanzitutto c’è da stabilire se la reazione militare sproporzionata all’attacco di Hamas del 7 ottobre, con quasi 35mila vittime nella Striscia, non possa essere considerata una punizione collettiva, ritenuta un crimine di guerra dalle Convenzioni di Ginevra, in violazione dei principi di distinzione e proporzionalità. Anche nel caso delle Idf, inoltre, il rischio è che siano stati commessi attacchi intenzionali contro civili e beni civili, oltre che al personale, ai veicoli e alle strutture di personale impegnato nell’assistenza umanitaria. In questo senso, basta ricordare i numerosi raid su strutture dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), l’attacco ai convogli Unicef e della ong Wck, i bombardamenti sugli ospedali e le strutture sanitarie dove operano anche medici di organizzazioni internazionali, così come quelli contro le ambulanze impegnate nel soccorso dei civili vittime dei raid. A questi si aggiungono gli attacchi ai luoghi di culto, come le numerose moschee demolite dalle bombe israeliane.

Uno dei punti su cui, secondo le fonti citate dai media, la Corte Penale Internazionale si sta concentrando maggiormente è il possibile ostacolo volontario di Israele all’afflusso di aiuti umanitari nell’enclave palestinese. Strategia che potrebbe aver contribuito ad affamare volontariamente la popolazione violando le convenzioni internazionali in materia di diritti umani. In questo senso, oltre all’ostacolo all’arrivo degli aiuti, a contribuire potrebbero essere stati anche gli inviti alla popolazione ad abbandonare le proprie case per sfollare verso il Sud della Striscia. Un trasferimento che potrebbe essere considerato coatto dato che è avvenuto minacciando nuovi raid.

Twitter: @GianniRosini

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