Il 28 aprile 2004 il programma “60 Minutes” della rete televisiva statunitense CBS rivelò scioccanti immagini di prigionieri iracheni sottoposti a maltrattamenti e torture da soldati americani nel carcere di Abu Ghraib.
Per 20 anni, a chi ordinò e a chi eseguì quelle torture è stata garantita una pressoché totale impunità. I soldati ritratti nelle fotografie sono stati condannati a qualche mese di carcere, il comandante della prigione – il colonnello Thomas Pappas – se l’è cavata con una multa e la radiazione dall’esercito.
Ma un processo civile, iniziato il 15 aprile negli Usa, con enorme ritardo e dopo numerosi tentativi di archiviazione sin dal 2008, potrebbe portare a qualche novità. Sotto accusa è un’azienda privata cui era affidato l’incarico di interrogare i detenuti.
I ricorrenti sono Suhail Najim Abdullah al-Shimari, As’ad Hamza Hanfoosh al-Zuba’e e Salah Hasan Nusaif al-Ejaili, tre civili iracheni – l’ultimo, un giornalista di al Jazeera – che trascorsero vari periodi di tempo ad Abu Ghraib prima di essere scarcerati senza accusa né processo. Semplicemente, non avevano commesso alcun reato.
L’elenco dei maltrattamenti e delle torture che hanno denunciato di aver subito è spaventoso: scariche elettriche, violenza sessuale, diniego del cibo, minacce di essere aggrediti dai cani, obbligo di rimanere nudi, getti d’acqua ghiacciata e bollente, bastonate sui genitali, lunghi periodi di isolamento. Gli effetti, sul piano fisico e mentale, continuano a farsi sentire ancora oggi.
In tutti questi anni l’azienda privata si è difesa affermando che la responsabilità delle torture ad Abu Ghraib ricadeva sulle autorità statunitensi. Ma a suo carico vi sono prove schiaccianti, come ad esempio le istruzioni date alla polizia militare affinché “ammorbidisse” i detenuti prima degli interrogatori.
Dal punto di vista della prevenzione e della repressione del reato di tortura, negli ultimi 20 anni il mondo non ha fatto passi avanti. Lo vediamo bene anche in Italia, dove la norma rischia di essere cancellata.
Pochi giorni fa Amnesty International ha pubblicato un rapporto sulle prigioni, nel nordest della Siria, in cui sono trattenuti 11.500 uomini, 14.500 donne e 30.000 minorenni catturati dopo la sconfitta dello Stato islamico: 56mila persone prive di diritti, tenute in condizioni subumane, spesso non accusate di alcun reato, talora vittime di reati commessi proprio dallo Stato islamico. Oltre a siriani e iracheni, ci sono cittadini di altri 74 stati. Meno di un quinto è stato processato, peraltro in modo del tutto sommario, sulla base di prove estorte con la tortura, senza neanche la presenza di un avvocato.
In Israele ci sono circa 9.500 detenuti e prigionieri palestinesi. Duecento sono minorenni. Il 40% è in detenzione amministrativa senza accusa né processo. Molti subiscono torture e sono privati di cibo, cure mediche adeguate e contatti con le famiglie. Secondo le organizzazioni per i diritti umani, almeno 40 prigionieri e detenuti palestinesi sono morti in custodia dallo scorso ottobre e spesso le autorità israeliane trattengono i corpi dei defunti senza restituirli alle famiglie.
A febbraio l’Ufficio del difensore pubblico israeliano ha dichiarato che c’è “una crisi senza precedenti” nel sistema penitenziario, nel quale “persone condannate e in attesa di giudizio sono ammassate in ambienti inumani”; a causa di un “intollerabile sovraffollamento”, lo spazio a disposizione per ciascuna persona è di tre metri quadrati. L’esercito israeliano ha reagito a questa denuncia annunciando che saranno costruite altre 936 celle per i cosiddetti “prigionieri di sicurezza”. Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir ha plaudito all’iniziativa, ma si è detto favorevole a una soluzione più radicale per risolvere il problema del sovraffollamento: la pena di morte.