Nel silenzio generale, il 7 maggio, un milione fra docenti, amministrativi e collaboratori sono chiamati ad eleggere il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, un organo costituzionale che ceto politico e casta sindacale hanno più volte cercato di far sparire. Il “fastidio” sta nel diritto degli eletti di esprimere un parere obbligatorio (anche se non vincolante) sugli atti del ministro e sulle “riforme” della scuola. Dal 2000, la cosiddetta “autonomia” ha sciolto i Consigli Scolastici Provinciali e sospeso quello che si chiamava Consiglio Nazionale, tutti eletti nel 1997 e istituiti da una legge tuttora vigente. Solo il Consiglio di Stato, ribattezzandolo Cspi, ne impose nel 2015 la ricostituzione. Con la pandemia le elezioni vennero rinviate dal 2020 al 2024.
Si tratta di un’occasione unica per ridare valore a libertà d’insegnamento e d’apprendimento, difendendole dal turbo-liberismo. L’Unicobas vuole che il Consiglio divenga una vera rappresentanza professionale, che scriva il codice deontologico della funzione docente e che si riformino i Consigli di Disciplina (cancellati per dare ai dirigenti la gestione delle sanzioni). Occorre battersi contro ogni confusione dei ruoli, o valutazioni inaudita altera parte dai Dirigenti, peraltro mai formati per questo e mai valutati. È necessario rigettare i ridicoli quiz Invalsi per gli studenti e opporsi alle classi-ghetto per gli extracomunitari. Il preside deve essere elettivo e occorre un anno sabatico d’aggiornamento ogni 5.
Il nuovo Consiglio dovrà ostacolare la regionalizzazione (definitivo massacro per le scuole del meridione) e le controriforme di Valditara. Dovrà lottare contro la preminenza delle competenze sulle conoscenze e il mero addestramento professionale, senza controllo e diritti, che ha causato la morte di 4 studenti nella formazione professionale. Contro il minimalismo e gli interessi dei padroni del web. Per l’estensione del tempo pieno e l’ingresso nell’obbligo dell’ultimo anno della Scuola dell’Infanzia. Contro i finanziamenti alle scuole private (550 milioni l’anno). Per il ritorno ai curricula ciclici, cancellati dalla Moratti per imporre una scuola nozionistica e inadeguata agli stadi evolutivi degli alunni.
La scuola va riformata con l’uscita dall’area impiegatizia e finalmente un contratto pubblico specifico che ne riconosca la particolarità. Il Dl.vo 29/93 ha eliminato scatti biennali d’anzianità e aumenti superiori all’inflazione “programmata” (sempre inferiore al tasso reale): è la privatizzazione del rapporto di lavoro nel Pubblico Impiego. Per questo siamo scesi all’ultimo posto nella Ue, tanto che un docente spagnolo ha mille euro netti in più al mese. Non è stato così per Università, militari e magistratura. Confederali e Snals sono stati artefici dell’appiattimento, per i Co.Ba.S. non si deve uscire dal P.I., la Gilda vuole un contratto separato fra Ata e Docenti sempre interno al P.I., il concorsificio Anief è connivente. Solo con un contratto autonomo potremo riavvicinarci alla media retributiva europea.
Occorre più rispetto per docenti e Ata, ormai senza considerazione sociale alcuna. La scuola non ha neanche la quattordicesima mensilità, ma le si impone una formazione di regime. Non c’è scuola di qualità senza un limite di 20 alunni per classe, esenzioni fiscali per autoaggiornamento, libri e strumenti didattici, ingresso gratuito (anche per studenti e disoccupati) in tutti i musei. Vogliono ridurre la carta del docente, 500 euro l’anno da estendere invece anche a precari ed educatori. Occorre coprire i vuoti d’organico e istituire un doppio canale di reclutamento riservando ai 100mila precari il 50% dei posti. Delle sostituzioni non deve occuparsi il personale stabile: titolarità su classe a tutti i docenti, no al ruolo di tappabuchi creato da Renzi con il cosiddetto organico “dell’autonomia”. Occorre l’istituzione di una classe di concorso per garantire continuità didattica sul sostegno. Va eliminata la truffa contrattuale del pagamento a forfait, garantendo una retribuzione oraria tabellare per gli straordinari.
Urge un piano generale per l’edilizia scolastica, che casca a pezzi. L’80% degli istituti è fuori norma e il 60% di quelli meridionali è addirittura privo dell’abitabilità. Nonostante i 200 miliardi del Pnrr, Draghi non stanziò i 13 miliardi necessari, bensì la miseria di 800 milioni. Il governo Meloni non ha ancora investito neanche quelli. Ha però disposto il taglio di 500 scuole e le criticità del Liceo del “Made in Italy” e della cosiddetta filiera tecnologica, che vogliono dare nelle mani dell’impresa.
Per i non docenti servono gratifiche specifiche sia per i rischi penali della coadiuzione educativa, che per quelli contabili. Il personale Ata non gode di un effettivo diritto alla sostituzione per malattia e ne soffrono pulizia e sicurezza. Occorre riparare al furto dell’anzianità di servizio subito dal personale spostato dagli enti locali allo stato, furto condannato da 10 sentenze della Corte Europea alle quali l’Italia non ha mai dato seguito.
Per ciò che attiene alla rappresentanza sindacale, dal 1997 il Cspi venne soppiantato da una normativa anticostituzionale fatta per impedire l’affermazione delle organizzazioni di base. Invece che con queste consultazioni nazionali, la “maggiore” rappresentatività si calcola oggi sui voti raccolti presentando liste nelle singole scuole. Ma raggiungere gli istituti è proibitivo senza il fondamentale diritto d’assemblea in orario di servizio che per le elezioni Rsu viene negato ai sindacati di base (concesso invece un solo mese per il Cspi). E senza neanche un’ora di permesso a fronte dei mille distaccati riservati a Cgil, Cisl, Uil, Snals, Gilda e Anief, pagati dallo stato. Persino dove depositiamo una lista non possiamo presentare il nostro programma elettorale.
I firmatari di contratto restano “rappresentativi” per legge pure a voti zero! Bassanini inventò infatti anche l’infingimento della media del 5% fra voti presi e percentuale sul totale dei sindacalizzati. Controllando il 10% della minoranza sindacalizzata (un terzo della categoria), per i sindacati di stato il voto diviene una mera formalità. La partita è truccata: dovremmo ottenere almeno l’8% sul 70% di lavoratori che si recano alle urne, ma senza poterci parlare. Raggiungere il quorum in un’intera provincia o regione non conta nulla. È come se i partiti che non entrassero in parlamento (ma con una soglia di fatto superiore al 7%) non potessero accedere neanche ai consigli regionali, provinciali, comunali o di municipio e fare campagna elettorale! Alla faccia della par condicio! La L. 107/97 è un macigno che grava sull’inconsistenza democratica di tutti i governi degli ultimi 30 anni.
Un buon risultato elettorale creerebbe un dato politico che contribuirebbe a mettere in crisi questa vergogna, azzerando un vantaggio accumulato in decenni di illegittimo monopolio.