di Carmelo Sant’Angelo

“Metterci la faccia” non è solo un modo di dire, ma anche un’apprezzata tecnica di marketing. Molti gli imprenditori che sono diventati volti del loro brand. Harland Sanders, proprietario della catena di fast food KFC, ancora oggi accoglie i propri clienti dall’alto di un’insegna luminosa. In Italia, il più noto è Giovanni Rana. Memorabili gli spot commerciali in cui incontra in sogno i grandi divi di Hollywood (Marilyn Monroe, Rita Hayworth, Humphrey Bogart) e addirittura Stalin sulla Piazza Rossa.

Il messaggio veicolato è semplice e, al contempo, ingegnoso: il sig. Giovanni non è un attore, ma un artigiano dalle mani sapienti e dal cuore semplice. I suoi sogni sono ancora quelli del ragazzo, con i poster delle attrici di Hollywood nella sua stanza, e con quella capacità di scherzare, prendendosi gioco anche del demoniaco Stalin. I consumatori provano simpatia per quel nonno canuto, che conserva la leggerezza di un giovane con lo sguardo ottimista sul futuro.

Associare, inoltre, il proprio nome al brand equivale a stipulare un accordo tacito con i propri clienti. Sono talmente convinto della bontà del mio prodotto e ho tanto a cuore la mia azienda che sono pronto “a metterci la faccia”. Dietro ogni busta di tortellini c’è una persona ben precisa e, dunque, se decido di fidarmi di lui sono pronto a comprare tutto ciò che lui può offrirmi.

Dai tortellini al partito politico il passo è breve. Anziché arruolare un testimonial dalla forte visibilità mediatica, alcuni leader politici hanno deciso di mettere il proprio nome sulle liste elettorali, pur consapevoli che il cittadino elettore aprendo la confezione non troverà i tortellini, ma i fusilli. Nessuno di questi, infatti, lascerà la propria “cadrega” per traslocare a Strasburgo.

Lascio ai lettori i commenti sul decadimento da cittadino-elettore a elettore-consumatore, perché ciò che più mi preoccupa sottolineare è una reiterata torsione costituzionale. Sebbene siamo in presenza di elezioni europee e non nazionali, i connotati rimangono identici. Siamo, cioè, testimoni di un costante e aggressivo assalto al carattere rappresentativo della nostra democrazia. La scelta di questi leader politici è coerente con il tentativo, andato a buon fine, di scardinare, nel contesto nazionale, il rapporto di responsabilità politica (che lega il Governo al Parlamento) e il rapporto di rappresentanza politica (tra il Parlamento e il corpo elettorale).

Più chiaramente:
a) l’Esecutivo si ritiene irresponsabile nei confronti delle Camere, con un premier che vorrebbe rendere conto esclusivamente ai cittadini al termine del suo mandato;
b) il parlamentare non dimostra alcuna cura dei suoi elettori, perché il suo mandante è il segretario di partito, che lo ha candidato nel collegio e nella posizione idonea per essere eletto. Il cittadino vota Giorgia, ma sarà eletto Marco!

Da trent’anni a questa parte, grazie a leggi elettorali infarcite di meccanismi di cooptazione (premi di maggioranza, liste bloccate, voti congiunti alle liste e ai candidati nei collegi uninominali ecc.) si è affermata la democrazia dell’investitura. Non si elegge più un Parlamento rappresentativo della società, ma si consegna al leader di uno schieramento la palma del vincitore e il compito di formare un governo che dovrebbe godere dell’acritico e incondizionato appoggio della maggioranza.

Il premier ritiene di poter vantare una diretta rappresentatività e, pertanto, in dovere di rendere conto del proprio operato esclusivamente ai cittadini. Su questo pericoloso travisamento delle regole costituzionali si basano tutte le riforme costituzionali tentate dalla bozza di Lorenzago (2003) in avanti: rimuovere ogni contrappeso che possa ostacolare il premier nell’attuazione di quel programma di governo “approvato” dagli elettori. Al Parlamento, invece, non resterà che recitare la parte notarile, cioè del soggetto chiamato a ratificare le decisioni assunte a Palazzo Chigi. È quello che già, purtroppo, avviene!

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