Camerati, presente, braccia tese nel saluto romano e tutta la liturgia che accompagna “sta rottura de c… dei fascisti”. La citazione è di tale Ivano, cittadino qualunque col dono della sintesi, ed esprime la stanchezza dell’assistere ancora e ancora a fanatismi vecchi di cent’anni. Anche basta, no?
No. E a Dongo, Predappio e Milano il fascismo risale come un rigurgito. Ridicolo, con tutte quelle teste omologate e giacche nere a mo’ di grembiulini, e preoccupante, come lo è ogni branco. Più che preoccupante. Perché mentre il branco nero appare pasciuto, l’antifascismo si smagrisce, da fondamento diventa schieramento.
Fateci caso: puntualmente ogni 18 aprile l’antifascismo si risveglia a parole e per sette giorni appare su giornali e social fino al culmine del 25. Come i buoni propositi a Natale, come certe frasi per la Festa della Donna “che ricorre ogni giorno”. Concetto, tra l’altro, che dovrebbe valere anche per l’antifascismo, almeno in un Paese con una Costituzione come la nostra.
Invece, nella settimana dell’antifascismo delle parole, è tutto una faccenda di riti, di bandiere e sindacati, di Palestina e di Fidel, di rosso, di cose che si possono dire e non si possono dire, di questioni di principio, di politica. L’antifascismo, che dovrebbe essere di tutti gli italiani e in cui tutti – a proposito – non dovrebbero avere problemi a riconoscersi, diventa di parte, diventa politico.
Stefano Massini, pluripremiato autore di opere (che adoro), in piazza a Firenze cita una frase di Giorgia Meloni, “la fine del fascismo pose le basi per la democrazia”, e aggiunge: “La fine del fascismo grazie agli antifascisti pose le basi della democrazia”. Applausi, ma il giochino delle parole “mancanti” si potrebbe usare in ogni circostanza e a me pare buono solo per buttarci in mezzo un po’ di politica spicciola.
Il problema è che l’antifascismo delle parole, per quanto meritevole, non basta e infatti finisce il 25. Tre giorni dopo, il 28 aprile, a Dongo settanta nostalgici commemorano un manipolo di gerarchi fascisti mentre più in là in 200 cantano Bella Ciao, guardati a vista dalla Polizia per far sì che la commemorazione possa svolgersi senza incidenti. L’indomani, 29 aprile, a Milano sono in 1500 a sfilare dietro lo striscione “onore ai camerati” fin sotto casa Ramelli, scortati di nuovo dalla Polizia per evitare tafferugli.
Ed è qui, adesso, che l’antifascismo dovrebbe insorgere, scendere in piazza e alzare la voce; nel vedere Forze dell’ordine, e quindi lo Stato, impegnate a scortare fascisti mentre commettono reato. Gli articoli 4 e 5 della Legge Scelba parlano chiaro: è reato commettere apologia del fascismo, è divieto compiere manifestazioni fasciste.
Si dirà che sull’apologia certe sentenze della Cassazione sono un po’ ambigue, si dirà che è questione di buonsenso. Ma il buonsenso, per quanto comprensibile, è un’eccezione alla regola che non può valere solo per alcuni. Perché allora non applicare buonsenso con chi ruba per fame? Con chi senza casa ne occupa una? Con chi non può permettersi di assicurare l’auto con cui va al lavoro e viene pizzicato dalla Stradale? Perché non applicare buonsenso con i ragazzi che protestano per il genocidio a Gaza? Perché manganellare studenti e scortare fascisti?
Di fronte alle storture di un Governo che vuole che i suoi rappresentanti parlino nei talk senza vincoli di tempo e senza contraddittorio, che i suoi comizi vengano trasmessi senza mediazione giornalistica, avremmo un gran bisogno di antifascismo, delle parole e dei fatti. E ne avremmo bisogno oggi, anche se il 25 aprile è già passato, anche se non è rosso sul calendario.