Cinema

Una spiegazione per tutto sembra un filmetto leggero e invece è un piccolo gioiello

di Davide Turrini

Orban sì, Orban dai, Orban fantasma. Il premier ungherese è finito perfino dentro/sopra/sotto un film spassoso ed imperdibile come Una spiegazione per tutto. Spaccato storico politico contemporaneo che attraverso l’ironia, la spensieratezza, il battibecco, illustra l’ira funesta di gente comune (una volta si diceva il popolo) attorno ai concetti di patria e nazione. Non che in Italia sul tema ci si faccia mai mancare qualcosa, ma la sintesi cinematografica del giovane regista Gabor Reisz restituisce il caos culturale sotto il cielo d’Ungheria come nessun cronista occidentale avrebbe mai potuto osare.

Galeotta fu quindi la coccarda tricolore (simbolo risorgimentale della rivoluzione popolare anti austriaca del 1848 fondativa del concetto di nazione ungherese) indossata senza farci granché caso sulla giacca per il maturando diciottenne Abel. Scena muta di fronte alla domanda generica di storia della commissione d’esame, bocciatura bruciante e caso che da personale familiare diventa in pochi giorni, e altrettanto casualmente, caso giornalistico e mini scandalo nazionale. “Sono stato bocciato perché indossavo la coccarda”.

La vox populi naturalmente incontrollata, ramificata in mille rivoli, telefono senza fili e titolo di giornale, peraltro invisibile (geniale dettaglio di mister Reisz che scrive il film con Eva Schulze), distorcono il fatto verso la comfort zone partitica di ognuno dei protagonisti. Quando invece Abel (Gaspar Adonyi-Walsh) è tutto fuorché un invasato nazionalista. Bensì un giovane allampanato, un po’ tonto, ma soprattutto innamorato perso della compagna di classe Janka (Lilla Kizlinger), a sua volta cotta fino allo sfinimento del quarantenne torello insegnante di storia Jakab (Andras Rusznak), colui che, appunto, porrà la domanda fatidica a Abel “perché indossi la coccarda” e ne sentenzierà la bocciatura. E qui arrivano classe, talento e stile di Reisz.

Perché Una spiegazione per tutto è una storia stratificata e vorticosa di sottotrame incastrate con cristallino piacere, a partire dalla presenza continua di Gyorgy, padre di Abel (Istvan Znamenak), signore di mezza età, borghese e chiaramente anticomunista (il comunismo sovietico dell’invasione armata del ’56 ndr), sorta di legame altrettanto spiritoso sia con il mondo del lavoro giovanile (le battute corrosive con il giovane collega che vuole migrare per il lavoro dei sogni sono da applausi) che con le radici culturali tardo novecentesche del suo paese. Nulla di noioso o palloso, anzi.

Il film frizza giocoso come un bottiglia di vino fermentato e poi spumeggia tra ricami poetici sognanti e dura legge del senso di appartenenza patriottico. Srotolato su sette giorni consecutivi, suddiviso in graziosi titoli di capitoli giornalieri, ambientato in una Budapest estiva calda e perennemente grigiastra, supportato da una vitale presenza di macchina a mano con panoramichette a schiaffo, il film di Reisz raggiunge il suo climax nel salottino della casa della famiglia di Abel dove si scontrano Gyorgy e Jakab, senza che Reisz propenda per squilibrate lezioncine morali: il nazionalismo illiberale orbaniano di Fidesz contro la corruzione globalista e finto socialista dei rampanti tecnocrati alla Gyurcsany che scoppietta in una disputa dannatamente profonda ma apparentemente da bar. Cifra generale di Una spiegazione per tutto: sembra un filmetto leggero e invece è un piccolo gioiello. Vincitore della sezione Orizzonti a Venezia 2023. Reisz aveva già colpito nel segno nel 2018 con l’altrettanto spassoso Bad poems. Nelle sale italiane grazie ad I Wonder.

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