False piste, mancata collaborazione, ostruzionismo. Dall’ipotesi del presunto incidente stradale, passando per il traffico di opere d’arte, fino alla presunta rissa finita male al consolato italiano, al falso movente sessuale e alla banda dei cinque rapinatori, sbandierata dalle autorità come soluzione del caso. In Aula per la nuova udienza del processo Regeni a Roma, sono stati ripercorsi tutti i falsi moventi e i depistaggi prospettati dall’Egitto, poi smentiti in base alle indagini raccolte dagli investigatori dello Sco della Polizia di Stato e da quelli del Ros dei Carabinieri, che indagarono al Cairo, al fianco delle stesse autorità egiziane, pochi giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Giulio Regeni.
Le ipotesi investigative, falsamente avanzate dalla polizia giudiziaria egiziana, venivano riprese anche dai telegiornali e media nazionali, con tanto di testimoni che rilasciavano interviste che, come ricostruito dagli investigatori italiani, non avevano poi riscontri reali. Ma non solo. È emerso ancora una volta come Usham Helmi (ovvero, uno dei quattro imputati, insieme al generale Sabir Tariq e i colonnelli Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, sotto accusa per il reato di sequestro di persona pluriaggravato, e, nei confronti di quest’ultimo, per concorso in lesioni personali aggravate e il concorso in omicidio aggravato, ndr) fosse in pratica sempre presente durante i sopralluoghi investigativi sulla scena del crimine dove venne ritrovato il cadavere torturato del giovane ricercatore. Lo hanno ricordato i due testimoni della procura, a cui sono state anche mostrate le foto dello 007 egiziano imputato.
L’ex colonnello del Ros, Loreto Biscardi, ha spiegato tutte le difficoltà riscontrate dalle autorità italiane: “Non ci è mai stato fornito alcun filmato, nemmeno delle telecamere della metropolitana. Le indicazioni che venivano dal team di detective locali erano quelle di un complotto ai danni dell’Egitto, o di un’azione terroristica da attribuire ai Fratelli musulmani. Tutto per complicare i rapporti con l’Italia”.
Vincenzo Nicolì (Sco) ha aggiunto: “Venivamo da un’esperienza positiva di scambi con la polizia egiziana, le aspettative in partenza erano quelle di chiarire la vicenda. Ma se all’inizio ci fu una apparente collaborazione, ci consentirono di assistere alle assunzioni di testimonianze, noi cercavamo riscontri oggettivi, poi, fin da subito, le autorità egiziane furono informate che ciò che era emerso dall’autopsia svolta in Italia non era compatibile con le loro ipotesi investigative come l’incidente stradale“.
E ancora: “Mano a mano che si andava avanti ci furono prospettate altre ipotesi come il coinvolgimento di Giulio Regeni in un traffico di opere d’arte rubate, altre che riguardavano la sua sfera sessuale, poi quella di uno scontro fisico con una persona davanti all’ambasciata. Tutte queste ipotesi investigative della polizia egiziana – ha aggiunto Nicolì – non erano però assolutamente riscontrate. Proprio quando il 24 marzo 2016 decidiamo di far rientrare il team investigativo, con i nostri uomini che erano in aeroporto, ho sentito la notizia che gli egiziani sostenevano di aver trovato gli assassini di Giulio Regeni e allora li ho chiamati per dirgli di non partire e di rimanere lì”. Ma anche rispetto alla soluzione prospettata dal Cairo “le incongruenze” erano evidenti, hanno ricordato gli investigatori italiani.
“C’era un’atmosfera come se il caso fosse stato risolto. Il loro punto forte è che avevano i documenti di Giulio, la sua carta di credito, il tesserino universitario. ‘Per questo sono stati loro’, sottolineavano Quella sera per loro l’attività era conclusa, con la responsabilità di queste 5 persone. Noi chiedemmo subito se era possibile avere dei riscontri oggettivi rispetto a quello che veniva affermato, ma non ne avemmo. Il giorno successivo poi ci dissero che non si procedeva più a 360 gradi, ma con obiettivo questi 5 presunti criminali”.
Nell’udienza di oggi è “emersa l’assoluta mancata collaborazione egiziana e l’ostruzionismo con i depistaggi da parte degli appartenenti alla National Security che dovevano collaborare alle indagini per l’omicidio e la tortura di Giulio Regeni”, ha commentato Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni: “C’erano molte contestazioni da parte degli egiziani e molto ostruzionismo. Abbiamo capito le informalità con cui sentivano questi testimoni, non venivano fatti verbali”.