Fiammingo di lingua francese, sposato con la pittrice Marthe Massin, critico e poeta, morto a Rouen schiacciato da un treno in partenza, anarchico antimilitarista, Émile Verhaeren (1855-1916) fu amatissimo da molti intellettuali, scrittori, artisti, e da potenti famiglie agiate, a cavallo fra Otto e Novecento. Il suo “réalisme habité” (anzi nutrito di post-simbolismo, al pari di un Pascoli) è stato sempre attento alle dure condizioni socioeconomiche dei suoi tempi.

La sua prima raccolta importante, Les Flamandes (1883), suscitò uno scandalo, soprattutto per le poesie sulla vita semplice dei campagnoli, indifferenti alle “parole cattive e chiacchiere vane / di fronte alla voluttà di sentirsi in due”, lieti del loro “festino di carne, gioventù, amore” (Amours rouges); il che non gli dispiacque affatto. Come il Pascoli, come certi naturalisti, Verhaeren descrive sì la campagna in via di trasformazione, ma anche e soprattutto le città della prima industrializzazione, delle ferrovie, della grande industria, della distruzione dell’ambiente vegetale, animale, umano – e insomma agli albori dell’inquinamento già iniziato. Il tutto con una compassione rude, corposa per i più poveri “nei paesini stipati: [dove] insomma, / la gente dei borghi vicini è già straniera” (I contadini)… Una rabbiosa tristezza, i cui echi arrivano forse fino al cantautore Brel (vedi il Tango funèbre), sotto un vento perenne che pare accanirsi “così forte / che diresti il cielo spaccato”, sulle distese pianure “interminabilmente sempre uguali” (Les Villes tentaculaires, 1895).

Non stupisce che, rifugiatosi in Inghilterra allo scoppio della Prima Guerra mondiale, Verhaeren si sia schierato contro la follia delle armi.

(JcV)

***

Chanson de Fou

Brisez-leur pattes et vertèbres,
Chassez les rats, les rats.
Et puis versez du froment noir,
Le soir,
Dans les ténèbres.

Jadis, lorsque mon cœur cassa,
Une femme le ramassa
Pour le donner aux rats.

– Brisez-leur pattes et vertèbres.

Souvent je les ai vus dans l’âtre,
Taches d’encre parmi le plâtre,
Qui grignottaient ma mort.

*

Canzone di Matto

Rompetegli zampe e vertebre,
cacciate i ratti, i ratti,
e poi versate frumento nero,
la sera,
nelle tenebre.

Un tempo, quando il mio cuore si spezzò,
una donna lo raccattò
e ai ratti lo regalò.

– Rompetegli zampe e vertebre.

Spesso li ho visti nel focolare,
macchie d’inchiostro su ceneri chiare,
che rosicchiavano la mia morte.

***

I ratti fra le tombe non lontane,
quando suona mezzogiorno,
ronzano nelle campane.

Hanno il cuore dei morti morso
e s’impinguano del suo rimorso.

Divorano il verme che mangia tutto
e la loro fame continua di brutto.

Sono i ratti
mangiano il mondo
da capo a fondo.

***

Le crapaud noir sur le sol blanc
Me fixe indubitablement
Avec des yeux plus grands que n’est grande sa tête ;
Ce sont les yeux qu’on m’a volés
Quand mes regards s’en sont allés,
Un soir, que je tournai la tête.

Mon frère ? – il est quelqu’un qui ment,
Avec de la farine entre ses dents ;
C’est lui, jambes et bras en croix,
Qui tourne au loin, là-bas,
Qui tourne au vent,
Sur ce moulin de bois.

Et celui-ci, c’est mon cousin
Qui fut curé et but si fort du vin
Que le soleil en devint rouge ;
J’ai su qu’il habitait un bouge,
Avec des morts, dans ses armoires.

Car nous avons pour génitoires
Deux cailloux
Et pour monnaie un sac de poux
Nous, les trois fous,
Qui épousons, au clair de lune,
Trois folles dames sur la dune.

(Les campagnes hallucinées, 1893)

*

Il rospo nero sul bianco terreno
mi fissa senza più e senza meno
con occhi più grandi della sua grande testa;
sono gli occhi che mi hanno rubato
quando i miei sguardi se ne sono andati,
la sera che voltai la testa.

Mio fratello? – è uno che mente,
con tanta farina tra i denti;
è lui, gambe e braccia in croce,
che gira lontano, laggiù,
gira ai venti,
su quel mulino di noce.

E questo qua è mio cugino
che fu prete e bevve tanto di quel vino
che rosso ne divenne il sole;
ho saputo che sta in varie bettole,
con cadaveri, nei banconi.

Ché abbiamo come coglioni
due ciottoli
e un sacco di pidocchi per spiccioli
noi, i matti triplici,
che sposiamo, al chiar di luna,
tre folli dame sulla duna.

***

Le nebbie

Tristi nebbie d’inverno malinconiche
dolorosamente sui miei pensieri
e sul cuore avvolgete mute coltri
di rami morti e di foglie sgualcite
livide, mentre, verso l’orizzonte,
sotto il molle cotone di pianori,
fra gli echi cupi e sofferenti, il suono
d’un angelus lontano si lamenta
ancora e muore nella sera vuota,
così solo e misero che una pola,
rannicchiata nel cuneo d’archi antichi,
sentendo che geme e piange si sveglia
e risponde piano, e pure si lagna
tra tutto il silenzio che porge l’ora,
e tace improvvisa, ché nella torre
crede spenta l’agonia dei rintocchi.

(Les bords de la route, 1895)

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