“Se lo lasciano passare, la censura non esiste più”, pare abbia detto Pier Paolo Pasolini alla fine delle riprese della sua “ultima sfida alla censura”, il violento e disturbante capolavoro sul potere Salò o le 120 giornate di Sodoma del 1975. Ma la censura e il suo stretto setaccio esistevano ancora, e sarebbero continuate a esistere per decine di anni in Italia. E così il lungometraggio – opera totale capace, in filigrana, di mostrare il ritratto più grottesco e angosciante del fascismo repubblichino, e allo stesso tempo di offrire una trasposizione visionaria del libro del marchese de Sade “Le 120 giornate di Sodoma” – andò incontro a trentuno casi processuali. Un destino che ha segnato la diffusione di numerose pellicole, finite nel corso degli anni sotto la lente dello Stato.
Secondo un censimento fatto in occasione della mostra permanente del Ministero della Cultura “Cine Censura” 274 film italiani, 130 americani e 321 provenienti da altri Paesi sono stati sottoposti a censura a partire dal 1944. Mentre quelli ammessi solo dopo modifiche e tagli sono stati oltre 10mila. Almeno fino al 2021, quando è stata annunciata l’abolizione della censura cinematografica e nel mese di aprile l’allora ministro per i Beni e le attività culturali Dario Franceschini ha firmato il decreto con cui ha archiviato il “sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti”.
Una libertà talvolta considerata pacifica ed eterna, ma che nella Giornata mondiale della libertà di stampa, mentre la parola e l’espressione sono sotto assedio (basti pensare allo stato di salute dei media, concentrati nelle mani di pochi editori e costantemente minacciati nella loro indipendenza), necessita ancora di essere difesa e ricordata.
Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci (1972) – Tagliato, denunciato, condannato, bruciato. Infine, riabilitato. Il giorno dopo la sua uscita nelle sale, il 15 dicembre 1972, la pellicola viene sequestrata dalle autorità per “esasperato pansessualismo fine a se stesso”. La Cassazione conferma la linea e condanna la pellicola al rogo. Bertolucci viene privato di diritti civili per cinque anni per offesa al comune senso del pudore e condannato a quattro mesi di reclusione con la sospensione condizionale della pena. Ma forse nell’arte il pudore non può esistere, e indimenticata e indimenticabile per tutti ancora oggi è la scena erotica del burro (anche al centro di una delicata questione etica e di consenso da parte della protagonista Maria Schneider).
Ma a cristallizzare nell’immaginario cinefilo questo capolavoro di disperazione è stata la sua luce crepuscolare, la capacità del suo regista di mostrare la tensione mortifera dell’eros. Un portato poetico restituito al pubblico solo nel 1987, a distanza di undici anni dalla condanna della Cassazione, quando la censura ha riabilitato il film permettendone la distribuzione nelle sale (Bertolucci stesso ne aveva conservato clandestinamente una copia, salvata così dalle fiamme) e in seguito anche il passaggio in TV.
Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco (1998) – “Lo scandalo? Forse ci sarà, il rischio ce lo prendiamo ma non abbiamo voluto fare nessuna provocazione”, dice ai cronisti Ciprì nel 1998. Il duo conosce bene il mondo del cinema italiano (e le dinamiche di potere che lo sottendono e lo muovono), e forse ha messo in conto tagli e limitazioni nella distribuzione. Probabilmente, però, non si aspetta quanto accaduto alla vigilia della sua uscita nelle sale: l’interdizione “per tutti”, nonostante fosse precedentemente stato scelto per essere sostenuto con i contributi pubblici perché di “interesse culturale nazionale”.
La decisione viene presa dalla Commissione censura riunita nel Dipartimento dello Spettacolo alla presidenza del Consiglio dei ministri. La motivazione ufficiale, resa nota dal Dipartimento dello spettacolo, è chiara (e oggi suona spaventosa): il film è offensivo del buon costume, con esplicito “disprezzo verso il sentimento religioso”, e contiene scene “blasfeme e sacrileghe, intrise di degrado morale”. A
l divieto totale – poi annullato ad agosto quando, con il parere contrario del presidente di commissione, la maggioranza concede il nulla osta con il divieto ai minori di 18 anni – seguono pochissime proiezioni, poi il processo per Vilipendio che si protrae per 3 anni, e infine l’assoluzione nel 2001 per registi, sceneggiatori e produttore. Così oggi quel fulminante bianco e nero, quella Sicilia povera e desolata, quasi apocalittica, quella perturbante commistione di cinismo, critica all’omologazione e scardinamento del manicheismo, sono accessibili a tutti gli spettatori.
Morituris di Raffaele Picchio (2011) – L’ultimo film a essere censurato in modo totale in Italia risale solo al 2011, ed è un film horror indipendente in parte stroncato da pubblico e critica, e oggi visibile nei festival o in Dvd. Ma perché il pubblico e la critica arrivino a decretarne successo o insuccesso, meriti e demeriti, il lungometraggio passa attraverso il parere contrario della Commissione di primo grado al rilascio del nulla osta in pubblico. Le ragioni? Ancora una volta l’offesa al buon costume.
Il film viene considerato, come si legge nel parere, un “saggio di perversività e sadismo gratuiti”. Elementi, a dire il vero, ricorrenti e peculiari di un certo cinema di genere, e la cui “gratuità” dovrebbe sempre essere giudicata in modo libero dai destinatari dell’opera. Perché l’illegittimità del processo censorio è vera anche quando a venire messo in discussione non è solo ciò che il film mostra, ma le ragioni poetiche per cui lo fa. La censura è illegittima anche quando dubita della qualità dell’opera d’arte, il presunto valore del film, un elemento sfuggevole e non aprioristico, ma frutto del mai pacificato processo di fruizione. Perché l’unico giudice designato a definire quali scelte – pur violente che siano – possano essere considerate funzionali alla resa dell’opera, e quali, invece, siano “gratuite” – e dunque offensive, sì, ma solo verso i suoi gusti personali – è e dev’essere lo spettatore.