di Stefano De Fazi

Il dibattito politico è per sua natura miope. Tende a concentrarsi su lievi fluttuazioni di variabili come il Pil, il tasso di occupazione ed il debito pubblico; mentre spesso vengono ignorati quei trend di lungo periodo che stanno corrodendo il welfare state e minacciando il corretto funzionamento della nostra democrazia. Mi riferisco soprattutto alle diseguaglianze economiche.

Secondo i dati del World Inequality Database, dal 1980 al 2022 in Italia, la quota del reddito lordo che è andata all’1% della popolazione più ricco è più che raddoppiata (dal 6,2% al 13,6%). Anche il 10% più ricco ha visto un netto incremento (dal 28,4% al 39,1%). A farne le spese è stata sia la metà più povera (dal 21,3% al 15,7%), sia la classe media (dal 50,3% al 45,3%). Per chi come fonte di entrate possiede unicamente il proprio stipendio, le brutte notizie non finiscono qui. La percentuale del reddito che va a remunerare il lavoro è scesa drasticamente a favore della quota che remunera il capitale (in forma di dividendi, plusvalenze, interessi etc). Una pubblicazione accademica stima una diminuzione addirittura dal 66,9% al 50% dal 1970 al 2018.

Questo trend è continuato negli ultimi tre anni, come attesta l’analisi Oxfam, recentemente pubblicata, sull’andamento dei dividendi delle grandi società italiane in relazione a quello del salario reale medio. In pratica, i lavoratori devono competere sempre più aspramente per rientrare in una fascia di reddito agiata e comunque la fetta di torta che si contendono è sempre più piccola.

Questi trend sono dovuti a diversi fattori, che concorrono alla stagnazione del reddito del lavoratore comune e contemporaneamente rendono l’ambiente propizio per quei pochi che possono contare su rendite derivanti dal possesso di immobili, asset finanziari e partecipazioni societarie. Ne riporto alcuni. La contrattazione collettiva portata avanti dai sindacati ha perso la sua efficacia, ostacolata da politiche che hanno sdoganato il lavoro a termine e il subappalto. E’ dovuta intervenire la Cassazione nel 2023, per provare a porre rimedio a quei casi in cui il Ccnl non garantisce i principi dell’articolo 35 della Costituzione.

La terziarizzazione, fenomeno che si è verificato in tutte le economie avanzate, in Italia è stata particolarmente negativa. L’occupazione si è spostata da settori industriali ad alto valore aggiunto e capaci di sviluppare progresso tecnologico, come l’automotive e il siderurgico, a settori del terziario a basso valore aggiunto, come turismo e ristorazione, che crescono grazie al contenimento del costo del lavoro.

Va evidenziato il fallimento del sistema scolastico, che, sotto-finanziato, si è dimostrato incapace di fornire un’educazione universale di qualità, ma ha deciso di investire unicamente in piccole nicchie. Da un lato in Italia solo il 28% dei giovani raggiunge un titolo di educazione terziaria, uno dato anni luce lontano dalla media europea. Dall’altro, il Miur spende il 60% delle risorse destinati alle infrastrutture universitarie per gli istituti di merito (la più famosa la Normale di Pisa), dove ci sono meno dell’1% degli studenti universitari.

Ad accentuare ancora di più queste dinamiche concorre il sistema fiscale, scaricando gli oneri principali sul lavoro e applicando aliquote agevolate ai redditi da capitale, che inoltre godono delle liberalizzazione che ne hanno aumentato la possibilità di movimento negli ultimi decenni.

Questi scenari implicano la necessità di misure che ad alcuni potrebbero sembrare “radicali”. A partire da una riforma del fisco che riporti progressività, tassando i grandi patrimoni e le rendite; passando per politiche che portino ad una diffusione degli utili anche ai dipendenti di una società. Fondamentale è anche un intervento pubblico che reindirizzi l’economia verso settori che possano garantire la competitività internazionale e stipendi dignitosi. Dato il contesto, di “radicale” in realtà c’è soltanto il continuare ad ignorare queste tematiche.

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