Dalle colonne del New York Times, il più importante quotidiano americano, l’economista Gabriel Zucman torna ad invocare un ripensamento del sistema fiscale statunitense (e non solo). Un prelievo maggiore a carico dei più ricchi ed un’azione redistributiva più incisiva da parte dello Stato. E lo fa partendo un grafico sorprendente, da cui emerge come da qualche anno e per la prima volta nella storia, l’aliquota effettiva a cui sono sottoposti i 400 contribuenti più ricchi d’America sia più bassa di quella che grava su chi ha redditi al di sotto della media della popolazione. Per i primi è del 23%, per i secondi del 24%.

Se per i cittadini con redditi sotto la media questa aliquota è sempre oscillata tra il 22% (nel 196o) e il 27-28% (negli anni ’90), quella dei 400 paperoni d’America mostra nel corso dei 64 anni analizzati un’inesorabile discesa. Nel 1960 si collocava al 56%, ovvero, per i ricchissimi, oltre la metà dei guadagni se ne andava in tasse. Nel 1980, con l’avvento dell’amministrazione Reagan di stampo neoliberista (ma che fece esplodere debito e deficit del paese), l’aliquota precipita al 35%. Dopo una risalita fino al 40%, negli anni di Clinton che deve risanare i conti, riprende a scendere quasi senza tregua. Nel 2000 è al 32%, nel 2010 al 27% e nel 2018, appunto, al 23%.

“It’s time to tax the billionaires”, si intitola il contributo di Zucman, che spiega anche perché siano possibili distorsioni come quelle descritte. “Mentre la maggior parte di noi vive del proprio stipendio, i magnati come Jeff Bezos vivono della propria ricchezza”, scrive l’economista. Nel 2019, quando Bezos era ancora amministratore delegato di Amazon, aveva uno stipendio annuo di soli 82 mila dollari. Bezos, però, possiede circa il 10% della società (una quota che valori odierni equivale a circa 200 miliardi). Nel 2023 Amazon ha realizzato profitti per 30 miliardi. Se restituisse i suoi profitti agli azionisti sotto forma di dividendi, soggetti all’imposta sul reddito, Bezos dovrebbe pagare ingenti tasse.

Ma Amazon non paga dividendi. Non lo fanno nemmeno Berkshire Hathaway (la società di Warren Buffett, ndr) o Tesla. Queste aziende trattengono i profitti e li reinvestono, rendendo i loro azionisti ancora più ricchi. A meno che Bezos, Warren Buffett o Elon Musk non vendano le loro azioni, il loro reddito imponibile è minuscolo rispetto alla ricchezza effettiva di qui dispongono. Possono comunque fare acquisti strabilianti, prendendo a prestito soldi dando le loro azioni in garanzia. Musk, ad esempio, ha utilizzato le sue azioni di Tesla come garanzia per racimolare circa 13 miliardi di dollari in prestiti esentasse e comprarsi Twitter.

In Europa le cose non sono molto diverse, spiega Zucman. Anzi. Il francese Bernard Arnault, patron di Lvhm, è l’uomo più ricco del mondo. Le azioni di Lvmh, appartengono però formalmente a holding che controlla che, nel 2023, hanno ricevuto circa 3 miliardi di euro in dividendi. La Francia però – come altri paesi europei – tassa pochissimo questi dividendi, perché, sulla carta vengono, ricevuti da aziende (le holding) e non da individui.

Eppure Arnault può spendere il denaro quasi come se fosse depositato direttamente sul suo conto bancario, a patto che lavori attraverso altre entità incorporate. Zucman torna quindi a chiedere ed auspicare l’introduzione di una tassa minima globale sui grandi patrimoni di cui Ilfattoquotidiano.it ha dato conto in più occasioni promuovendo e collaborando ad una raccolta di firme a sostegno dell’iniziativa “La Grande Ricchezza”, promossa da Oxfam.

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