Giorgio Bocca lo aveva soprannominato “Paperone” e trascritto la sua ineffabile battuta “se la ricchezza non fa la felicità, figuriamoci la miseria!”. Io lo ricordo come un bennato che all’aspetto sembrava Bertrand Russell; ma quando iniziava a parlare, era come ascoltare Gilberto Govi: Giamba Parodi, decano di antico lignaggio degli imprenditori genovesi, l’uomo che si era comprato un pezzo di Pirelli pagandolo in contanti, se lo andavi a trovare nel suo “scagno” avevi la prova tangibile di una frugalità tendente al monacale. La stessa sensazione provata una mattina, accompagnando il mio amico Giulietto Chiesa a Valdagno, per un incontro con Piero Marzotto, allora leader della famiglia e dell’impresa, in cui parlare di Russia e globalizzazione.

Visto che il discorso andava per le lunghe, l’ospite ci invitò a pranzo in casa sua. “Mangerete quello che hanno già preparato per me”, l’informale commento con cui il grande borghese ci accomodava al suo desco. Difatti: spaghetti e piselli seguiti da una pallida cotoletta. A pasto terminato e avviati sulla via del ritorno, scorsi lo stupore sul volto del mio compagno di viaggio vetero-comunista: si aspettava che nella magione di un tale capitalista il menù fosse rigorosamente “tre stelle Michelin”, cucinato da uno chef stellare.

Nell’intervista a Carlo De Benedetti, messa in onda nel corso della trasmissione Centominuti (Fiat e royal family torinese) su la Sette di lunedì 29 scorso, il ricordo che più colpiva era quella dell’Ingegnere a cospetto dell’Avvocato per antonomasia, che improvvisamente vedevano arrivare una ragazza completamente rasata a zero. Allo stupore di entrambi: “volevo capire se stavolta ti accorgevi di me”. Era Margherita Agnelli rivolta a suo padre. Una rimembranza che mi ha riportato alla mente l’impressione di squallore che ho spesso provato incontrando questi nababbi nella loro sfera privata. Lontano dalle piaggerie a tassametro dei loro narratori, per anni impegnati nella costruzione dell’epopea proprio di Giovanni Agnelli.

Il mito dell’impareggiabile eleganza di Agnelli largamente ostentativa e molto jet set (l’asola sbottonata, la cravatta a penzoloni fuori dal pullover, l’orologio allacciato sopra il polsino…), quando la prima regola del gentleman – dal tempo di Lord Brummel – è sempre stata quella di saper passare inosservato. E poi l’uso compulsivo di donne belle/bellissime per love stories senza love, speculari al dato caratteriale di costante, invincibile, noia. Quel tedio esistenziale che gli inglesi chiamano spleen. Insomma, al di là del luccichio delle apparenze, l’immagine di una persona non solo anaffettiva, ma anche tristissima; inevitabilmente sola; forse insicura. L’imprenditore che si dichiarava incapace perfino di gestire un’edicola di giornali.

E a proposito di insicurezza, che dire del nipote ed erede John Elkann? Questo giovane padrone che non riesce mai a essere il “numero uno”, di volta in volta messo in ombra da Luca Montezemolo, Sergio Marchionne e ora il leader di Stellantis, Carlos Tavares. Per cui ha bisogno di essere rifrancato dal conforto di compiacenti uomini di mano come Maurizio Molinari, proconsole a Repubblica. Così insicuro da aver fatto per anni incetta di testate giornalistiche non – come diceva De Benedetti – per vanità, bensì per fifa; per trasformarle in scudo protettivo dalle ipotizzate (e poi mai avvenute, in questa Italia sfinita e pre-agonica) insurrezioni popolari e politiche quando ci si fosse resi ben conto del suo reale intento: vendersi la Fiat e filarsela con il malloppo.

In questa bulimia di denaro, come mezzo per fare altro denaro, sua e delle fameliche famiglie che hanno ereditato i dividendi del fu impero industriale. Che spettacolo miserevole (e lo dico – sia chiaro – con tutto il risentimento personale verso chi, nella sua corsa a fare finanza, aveva tentato di colpire a morte una preziosa rivista, seppure di nicchia – come MicroMega). Un po’ lo stesso menefreghismo, irresponsabile e sostanzialmente provocatorio, dei Benetton, che organizzano un festoso barbecue all’aperto nella loro villa di Cortina, il giorno stesso in cui era avvenuta la catastrofe del Ponte Morandi a Genova. Quel crollo del quale – ostentativamente – dimostravano di non sentire alcuna responsabilità.

D’altro canto questi sono tempi senza pudore, in cui – diceva Zygmunt Bauman – i nuovi ricchi non hanno più bisogno dei poveri. Quando – ci informa il multimiliardario Warren Buffet – c’è in corso una guerra tra abbienti e non, che stanno vincendo loro. E probabilmente ha proprio ragione. Vorrei solo sapere che cosa ne sarà del loro equilibrio quando l’avidità non riuscirà più a colmarne il vuoto interiore. Tacitare l’eventuale, improvvisa, consapevolezza della loro offensiva inutilità in una società spaccata tra pochi uguali e tanti disuguali.

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