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Nba, l’ultima vittima illustre di Doc Rivers sono i Milwaukee Bucks. Come il coach si è costruito una fama da perdente

Da papabili candidati a delusione. I Milwaukee Bucks sono usciti a testa bassa dal primo round dei Playoff NBA, sconfitti dal solido roster degli Indiana Pacers. Gli infortuni, prima quello di Giannis Antetokounmpo che lo ha tenuto fuori dalla serie e poi di Damian Lillard, hanno sicuramente privato la franchigia di quei giocatori che spostano l’ago della bilancia. Ma la sfida con loro non sarebbe comunque stata scontata, anche per via di un allenatore che proprio ai Playoff ha una fama di perdente sempre più consolidata. Doc Rivers deve aver fatto un patto con il diavolo nel 2008: un titolo in cambio del sacrificio di tutta la carriera da quel momento in avanti. Perché dopo il trionfo con quei Boston Celtics che annoveravano Pierce, Garnett, Allen e Rondo nell’artiglieria, l’allenatore non ha collezionato altro che dolorose sconfitte. E tutte con dei super team. Così, dopo i Los Angeles Clippers e i Philadelphia 76ers, Rivers è riuscito nell’arduo compito di farsi buttare fuori dalla post season anche da coach di un’altra grande franchigia che tre anni fa vinceva l’anello e quest’anno, con Lillard, puntava solo a rivincere.

Disastro annunciato – Rivers è arrivato a metà campionato per provare a ribaltare una situazione che, a detta della dirigenza, non era la migliore considerate le risorse a disposizione. Poco importava se i Bucks di Adrian Griffin avessero il secondo miglior attacco e il secondo miglior piazzamento della lega con 30 vittorie e 13 sconfitte, perché il 21esimo record difensivo e lo scarso feeling con le stelle della squadra di un coach, alla prima esperienza da capo allenatore, non erano fattori accettabili. Così è stata assunta l’antifrasi in carne e ossa perfetta, appunto Rivers: un allenatore notoriamente “difensivista” e gestore di alcuni dei giocatori più forti di sempre (Tracy McGrady, Patrick Ewing, Chris Paul, Kawhi Leonard, Joel Embiid oltre ai “Big Three” dei Celtics). Ma il rimbalzo sperato non c’è stato e, al contrario, la regular season è finita peggio di come era cominciata con Griffin. Quello che doveva essere il messia ha chiuso le sue 36 partite (le 3 prima del suo arrivo sono state disputate dal coach ad interim Prunty) con un bilancio di 17 vittorie e 19 sconfitte e sotto la sua guida l’offensive rating del team è stato il 16esimo della lega. Come volevano i vertici della franchigia, però, l’efficienza difensiva è cresciuta fino al 12esimo posto. Alla fine, i Bucks 2.0 di stagione regolare non sono stati altro che una squadra capace di difendersi meglio, ma con un ritmo di attacco molto più basso e meno efficace. Tutto ciò, unito a una perdita di concentrazione e di esecuzione nei momenti più importanti che si ripete sistematicamente sotto qualsiasi gestione Rivers, ha gettato le basi per questo ennesimo capitombolo Playoff.

“Sopravvalutato” – L’assenza di Antetokounmpo, fermato da uno strappo al polpaccio, così come quella parziale di Lillard, non hanno certo aiutato. Ma il principale indiziato della disfatta resta il coach, incapace, secondo i tifosi, di instillare nei giocatori la legittima speranza di passaggio del turno e una tensione degna di una squadra che ha l’obiettivo di vincere il titolo. Questo è ciò che lo definisce da un decennio e ormai ne mina indissolubilmente l’identità: un buon allenatore di regular season, in grado di soddisfare o superare le aspettative iniziali quasi ogni anno, ma artefice di prestazioni disastrose nel corso della postseason. Traducendo il concetto in numeri, Rivers è l’unico allenatore di sempre ad aver perso per ben tre volte da un vantaggio in serie di 3 a 1 e, nel momento in cui ai Playoff sono soltanto 13 le occasioni dove una squadra è riuscita a rimontare un simile divario, questo significa che quasi un quarto dei crolli porta la sua firma. La figuraccia con i Milwaukee Bucks, dunque, è solo l’ultima di una lunga lista il cui comun denominatore è una schema di elementi preciso: la mancata presa di responsabilità e la perdita di coesione e tenacia mentale quando conta di più. Insomma, quando il gioco si fa duro Rivers non inizia a giocare, ma si squaglia come neve al sole e le sue squadre, che poi sono sempre il riflesso del proprio allenatore, fanno altrettanto.

Dinastia complicata – La prima grande “Caporetto” risale all’esperienza con gli Orlando Magic, franchigia in cui ha debuttato da allenatore. Nella stagione 2002/2003, gli ottavi classificati in Eastern Conference disputarono il primo turno contro i famigerati Detroit Pistons, vincitori del campionato nell’anno successivo. Andati avanti 3 a 1 nella serie e vicinissimi al colpaccio, furono poi rimontati da una franchigia che si spinse fino alle Finali di Conference. Il titolo conquistato qualche anno più tardi con i Boston Celtics sembrò l’inizio di un lungo ciclo per Rivers, all’epoca 46enne e quindi considerato in rampa di lancio, ma lo scheletro nell’armadio tornò a farsi rivedere a metà anni ’10. Il periodo comunque positivo in Massachussetts venne presto sommerso dal capitolo Los Angeles Clippers. Qui, a guida della scoppiettante “Lob City” e poi del tandem Leonard-George, ha dato la prova più iconica della sua “doppia faccia”, arrivando per quattro volte oltre quota 50 vittorie in regular season in sette anni e lasciandosi scappare, ai Playoff, altre due serie da una situazione favorevole di 3 a 1. Prima gli Houston Rockets nel 2015, poi i Denver Nuggets nel 2020 hanno inferto colpi lancinanti alla fama di Rivers. Non è andata meglio l’avventura ai Philadelphia 76ers insieme a tanti campioni come Embiid e Harden, dato che in tre anni insieme la squadra, mai scesa sotto il secondo posto in regular season, non è mai andata oltre le semifinali di Conference (nel 2022/2023 si è fatta rimontare da 3-2), complici anche quegli infortuni che si verificano puntualmente quando ad allenare sono lui e il suo staff . Ai Bucks non sembra essersi smentito.