Il long form pubblicato su Fq MillenniuM di marzo 2024
Il colosso contro una studentessa per una protesta pacifica e un articolo letto da poche centinaia di persone. Il gruppo industriale a caccia dei firmatari di una petizione, nome per nome. Lo Stato indispettito dalla psicologa che si batte per i diritti delle donne. In Europa a dover fare i conti con il bavaglio non sono solo i giornalisti. Attiviste e attivisti ogni giorno sanno che, se decidono di mettersi contro grandi aziende e gruppi di potere, rischiano di finire in tribunale. Il termine tecnico è SLAPP che non è solo il suono degli schiaffi in inglese, ma è anche un acronimo che sta per “causa strategica contro la partecipazione pubblica”. Detto in italiano: una querela temeraria. La logica è vecchia come il mondo ed è quella che porta a fronteggiarsi i Davide e i Golia, ovvero i piccoli contro i grandi. Il metodo è sempre lo stesso: trascinare in tribunale chi ti contesta a prescindere dal risultato. Perché l’obiettivo dei giganti è far perdere tempo e sfibrare: loro hanno soldi e anni da investire in battaglie legali infinite, i cittadini no. Così anche se il processo finisce con un’assoluzione, la prossima volta che qualcuno vuole contestare o criticare ci penserà due volte. Ecco perché servono protezioni per attivisti e giornalisti e, nel l’attesa delle istituzioni, sarebbe già qualcosa avere un conteggio preciso dei casi. Peccato però, che, nonostante le raccomandazioni della Commissione europea, nessuno Stato lo fa e neppure ha interesse a farlo.
Chi finora ha monitorato le azioni legali contro i singoli che si schierano per l’interesse pubblico è CASE, la Coalizione contro le SLAPP in Europa: nel report 2023 ne ha censite 820, ben 250 in più rispetto all’anno precedente, con una crescita che allarma in Grecia e Georgia. Le azioni legali vessatorie, scrivono, “sono una minaccia sempre più preoccupante per la democrazia in tutta Europa”. E l’Italia non è da meno: il Parlamento europeo, nel documento che ha analizzato solo 47 casi segnalati negli ultimi due anni, le ha assegnato il primato di querele temerarie. Senza dimenticare tutti gli episodi di cui non si riesce ad avere notizia. I principali imputati sono “i giornalisti”, conferma CASE, e questo “pone serie preoccupazioni sullo stato della libertà di stampa”. Ma non ci sono solo loro: quando a essere colpiti sono semplici cittadini e attivisti, le storie faticano ancora di più a emergere. E i singoli si ritrovano soli di fronte ai potenti. “La società civile è più forte quando è unita”, scrive la Coalizione. “Parlando con una sola voce, possiamo assicurarci che nessun gruppo venga emarginato, isolato o lasciato esposto ad azioni legali”. Quella che segue è una selezione, parziale e incompleta, di alcune delle vicende legali che hanno coinvolto semplici cittadini o attivisti in Europa. L’Ue li chiama “public watchdog”, ovvero canida guardia dell’interesse pubblico: esistono, fanno la differenza, ma senza abbastanza tutele.
Il colosso del gas chiede i danni a una studentessa
Che cosa potrà mai preoccupare la società statale del gas in Polonia ai tempi della crisi energetica? Difficile credere che, in un momento così delicato, a impensierire un colosso come Gaz System abbia potuto essere Nawojka Ciborska, studentessa universitaria di 21 anni. Il casus belli risale a inizio agosto 2022 quando il collettivo ambientalista Bombelki, letteralmente “b olla” in polacco, organizza un’azione di “guerriglia visiva” e proietta sulle mura del museo della scienza di Varsavia messaggi contro “i combustibili fossili”. Niente di vagamente violento (il gruppo predica la disobbedienza civile e pacifica), ma solo un modo originale per sensibilizzare e contestare il nuovo progetto di rigassificatore di Gaz System. Ciborska è tra le organizzatrici dell’azione e ne scrive un resoconto sul sito della fondazione ambientalista Zielone Swiatlo: racconta la “resistenza pubblica” e denuncia come il gas contribuisca ad aggravare la crisi climatica. Poi, riporta gli slogan anonimi degli attivisti che accusano Gaz System di essere “una banda di criminali che ci porteranno al disastro per i loro profitti”. Ecco la frase che ha provocato le ire del gigante. Poco dopo Gaz System ha citato in giudizio Ciborska e l’editore per danno d’immagine: vuole le scuse e 20 mila zloty (circa 4.500 euro). “È un tentativo di intimidirci”, ha detto l’attivista al blog SmogLab. “Io dove li trovo questi soldi?”.
La società a caccia dei nomi di una petizione
Ma è in Italia dove è in corso un’iniziativa di ritorsione che ha pochi precedenti in Europa. Tutto è iniziato meno di un anno fa quando il gruppo industriale Danieli ha pianificato la costruzione di un’acciaieria a Porto Nogaro, in Friuli. Sembrava cosa fatta, addirittura con il via libera del governo, ma nessuno aveva previsto che ci sarebbe stata una sollevazione degli abitanti: il progetto si è bloccato dopo che la Regione ha ricevuto una petizione con più di 24mila firme raccolte dal comitato “Salviamo la Laguna”. Uno stop ritenuto inaccettabile dal gruppo Danieli, che ha deciso di fare una mossa a dir poco inusuale: ha chiesto di avere accesso ai nomi e ai cognomi dei cittadini che volevano il blocco dell’impianto. E quando la Regione si è opposta per motivi di privacy, il gruppo Danieli ha fatto ricorso al Tar. “Per avere un quadro completo”, si è giustificato. Peccato però che, nel testo del ricorso, come rivelato da Giuseppe Pietrobelli su ilfattoquotidiano.it, le intenzioni siano chiare: la Danieli vuole proporre contro “i sottoscrittori della petizione, alternativamente, querela per diffamazione, ovvero azione civile per il risarcimento del danno”. Perché, sostengono, chi ha firmato “si è assunto la responsabilità di affermare che la Danieli costruisce acciaierie che creano un irreversibile danno ambientale”. Nel mirino della società ci sono più di 20 mila persone. Il primo citato come “co n t ro i n te re s sa to” è stato l’ambientalista Marino Visintini che ha lanciato un appello: “Ai cittadini va garantita la libertà d’opinione”.
Supermercati contro animalisti “per concorrenza sleale”
Ci sono voluti mesi e tre diverse sentenze prima che l’Associazione contro le “fabbriche di animali” (VGT) potesse tornare a parlare, senza censure, della sua campagna contro la catena di supermercati Spar. Succede in Austria: sotto accusa è finita una protesta lanciata nel 2022 sulle condizioni dei maiali, le cui carni sono vendute sugli scaffali della catena. VGT infatti si batte contro l’uso dei pavimenti completamente grigliati negli allevamenti di suini e ha accusato Spar di ignorare la questione. Durante i sit-in, l’associazione ha usato anche un manifesto con un logo rosso di Spar insanguinato e lo slogan: “Tortura animale”. Da lì la reazione dell’azienda che ha chiesto più di 60 mila euro di danni sulla base della legge sulla concorrenza sleale: la tesi è che se gli anumalisti li criticano è per spingere i clienti ad andare a comprare dai loro rivali. In attesa del processo, come ricostruito da Der Standard, due tribunali hanno emesso un’ordinanza cautelare che ha vietato a VGT di protestare associando la catena alle sofferenze dei suini. Finché, a novembre scorso, la Corte suprema è intervenuta abolendo le parti essenziali di quel provvedimento. E autorizzando a usare anche le immagini violente di animali maltrattati, perché tutelate dalla libertà d’espressione. Mentre era in attesa della decisione il presidente di VGT Martin Balluch ha detto che, a prescindere dalla sentenza, “il danno è già stato fatto perché per tutto questo tempo non abbiamo potuto fare critiche”.
L’attivista per le donne denunciata perché dice la verità
Ad Andorra, il principato incastonato tra la Spagna e la Francia, l’interruzione di gravidanza è ancora vietata in qualsiasi circostanza. Anche in caso di stupro o grave malformazione del feto. Succede nel cuore dell’Europa: se una donna ha bisogno è costretta a spostarsi in uno dei Paesi vicini, ma nessuno se ne preoccupa troppo. Chi si è presa la briga di denunciare la violazione dei diritti è Valeria Mendoza Cortés, psicologa e presidente dell’associazione Stop Violències: nel 2019, davanti alla commissione delle Nazioni unite sull’eliminazione delle discriminazioni contro le donne, ha denunciato la situazione di Andorra. Il risultato? È stata denunciata dal governo per diffamazione e per crimini contro il prestigio delle istituzioni: solo nel 2021 è caduta la prima accusa e ha dovuto aspettare gennaio 2024 per essere assolta dalla seconda. Cortés, come denunciato da Amnesty International, ha rischiato il carcere e il pagamento di più di 30 mila euro tra multa e risarcimento danni. Il procedimento, ha dichiarato la commissaria europea per i diritti umani Dunja Mijatovic, “ha minato la sua libertà di espressione e ha avuto un effetto intimidatorio sul lavoro dei difensori dei diritti umani”.
Al funzionario dell’Oms una maxi causa per danni
Due milioni e mezzo di euro è il risarcimento per danno d’immagine chiesto dall’ex direttore vicario dell’Organizzazione mondiale della sanità Ranieri Guerra all’ex funzionario Francesco Zambon, nonché alle trasmissioni tv Non è l’Arena e Report. La ragione? Il ricercatore è accusato di diffamazione per le sue dichiarazioni sul caso del piano pandemico dell’Italia durante il Covid. Zambon, convocato dai magistrati di Bergamo che indagavano sulle mancate chiusure in Val Seriana, disse che il piano in vigore nel 2020 era un copia e incolla di quello del 2006. Ma non solo. L’ex funzionario ha anche denunciato di aver ricevuto pressioni per modificare il documento sull’impreparazione dell’Italia, testo che venne pubblicato a maggio 2020 e rimosso dopo 24 ore dal sito delle Nazioni unite. Zambon si è poi dimesso e ha scritto un libro Il pesce piccolo, di cui ha parlato in televisione. In quelle occasioni, Guerra sostiene di essere stato diffamato. “Io ho fatto una segnalazione di un illecito”, ha raccontato poi il ricercatore in un’intervista all’Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa, “questo mi ha causato un grandissimo stress psicologico. Mi sono trovato senza lavoro, senza casa e senza soldi. Non auguro a nessuno di doversi difendere da una minaccia di risarcimento così importante”. L’anomalia, dice l’organizzazione Transparency international, è che Zambon non sia stato considerato dall’Oms un whistleblower, ovvero un “segnalatore” da tutelare: “Sembra che i whistleblower siano garantiti solamente nel caso in cui segnalino illeciti che possano danneggiare l’organizzazione stessa (e non la salute pubblica)”.
Eni minaccia di azioni legali chi l’accusa di inquinare
In Italia, a maggio scorso, è stata avviata per la prima volta una climate litigation: ovvero un’azione legale che punta a imporre a un’azienda, con la giurisprudenza, gli standard minimi in termini di emissioni e rispetto dell’ambiente. A portare avanti quella che hanno chiamato “la Giusta Causa” sono le ong Greenpeace Italia e ReCommon: insieme a 12 cittadini e cittadine, hanno avviato una causa civile contro Eni per violazione dell’Accordo di Parigi sul clima e, oltre alla compagnia energetica, hanno citato in giudizio anche i suoi azionisti pubblici (il ministero dell’Economia e Cassa Depositi e Prestiti). “Chi ha provocato scientemente i cambiamenti climatici degli ultimi decenni va messo di fronte alle proprie responsabilità”, è stato l’annuncio delle ong. Eni ha contrattaccato. E poche settimane dopo ha avanzato una richiesta di mediazione per una possibile causa di risarcimento per diffamazione. Richiesta che Greenpeace e ReCommon hanno respinto. Per il momento Eni non ha formalizzato alcuna azione legale, ma “La Giusta Causa” va avanti. In sostegno delle ong si è espressa la rete CASE: “L’intimidazione legale di Eni”, hanno scritto nella loro presa di posizione pubblica, “riflette le strategie abitualmente utilizzate dai querelanti SLAPP, il cui obiettivo principale è intimidire, prosciugare le risorse e soffocare le voci critiche. Condanniamo le pressioni legali di Eni come un atto di intimidazione ingiustificato e chiediamo che le minacce legali vengano ritirate”.
Vietato criticare il matrimonio della figlia del politico
L’odissea giudiziaria ha inizio ben nove anni fa. È il 2015 e la figlia di Bornito de Sousa, ex ministro ed ex vicepresidente dell’Angola, partecipa al reality show americano Say yes to the dress: la ragazza va in tv per organizzare un matrimonio memorabile e sceglie per sé (e le damigelle) le creazioni di una famosa designer al modico prezzo di oltre 200 mila dollari. A chilometri e chilometri di distanza, in Portogallo, un attivista noto per le sue battaglie politiche contro la corruzione decide di fare un post su Facebook: denuncia lo spreco di denaro della famiglia de Sousa in un Paese dove la maggior parte delle persone vive in uno stato di quasi povertà assoluta. Il commentatore si chiama Paulo de Morais e ripete l’arringa durante una trasmissione televisiva. Tanto è bastato a de Sousa per accusarlo di diffamazione: solo a dicembre 2023 la causa civile si è chiusa con l’assoluzione dell’attivista. È invece ancora in corso il processo, sempre per diffamazione, che l’ex ministro dell’Angola ha intentato contro il giornalista Oliver Bullough e il suo editore portoghese per il libro Money Land, all’interno del quale c’è un capitolo sul caso del vestito da sposa: uno degli interrogativi che vengono posti è come la famiglia abbia potuto permettersi quegli abiti visto che de Sousa “ha dichiarato di vivere grazie a uno stipendio da dipendente pubblico”. Al cronista vengono chiesti più di 500 mila dollari di risarcimento.
La coppia malese che sommerge di cause la ong svizzera
Negli anni Ottanta l’attivista Bruno Manser è partito dalla Svizzera per andare a scoprire le foreste pluviali della giungla del Borneo. Qui ha vissuto con la popolazione locale e l’ha supportata quando hanno organizzato i blocchi stradali per impedire l’arrivo dei taglialegna. Costretto a rientrare in patria, ha creato la ong che oggi porta il suo nome, la Bruno Manser Fond (BMF) e che tutt’ora si batte per i diritti ambientali in Malesia. Dal 2018 quella battaglia è resa più difficile dalle cause civili e denunce arrivate dal gruppo Sakto, i cui proprietari sono Jamilah Taib, figlia del governatore della regione malese del Sarawak, e il marito Sean Murray. I due contestano alla BMF e al suo direttore Lukas Straumann una serie di report, un libro sulla presunta corruzione del regime Taib e sul presunto riciclaggio di beni illeciti che la famiglia opererebbe in Canada. Tante le accuse della coppia alla ong: dalla diffamazione fino alla coercizione e violazione dei diritti della personalità. Ma non solo. Ha anche messo in campo un contrattacco sul piano della reputazione che va oltre quello che succede nei tribunali: ha creato un sito (thefactsmatter.ca) che mira a screditare tutto quello che fa BMF e a dare più pubblicità possibile alle azioni di Sakto. Finora Straumann e i suoi hanno speso più di 600 mila euro per cercare di difendersi. La situazione è diventata così allarmante che si è mosso anche il relatore speciale delle Nazioni unite per i diritti umani Michel Forst. In una lettera inviata a ottobre al governo svizzero, ha espresso la sua “grave preoccupazione” di fronte ai tentativi di “mettere a tacere” la BMF e ha chiesto un intervento urgente in difesa degli ambientalisti.
Gli agricoltori e l’assessore contro chi denuncia l’uso di pesticidi
In Alto Adige il tentativo di portare avanti decine di querele bavaglio ha avuto un vero e proprio effetto boomerang per i querelanti. “Tyrol Pesticide” è il manifesto provocatorio che, nel 2017, l’Istituto ambientale di Monaco di Baviera ha affisso nella metropolitana della città. Si voleva sensibilizzare sull’uso massiccio di pesticidi in quella che è la più grande regione chiusa dedicata alla frutticoltura in Europa. La mossa ha provocato l’ira dell’allora assessore provinciale all’Agricoltura Arnold Schuler che, insieme a 1375 agricoltori, ha querelato l’Istituto per diffamazione e contraffazione del logo ufficiale usato per la campagna. A quel punto però, la procura di Bolzano ha sequestrato i libretti di irrorazione dei pesticidi delle aziende che hanno fatto la denuncia e che sono finiti agli atti del processo. Alla fine Karl Bär, referente agricoltura dell’Istituto, è stato assolto. In compenso, ha avuto accesso per la prima volta alle cifre sull’uso dei pesticidi e gli ambientalisti hanno ottenuto le prove dell’uso massiccio e continuo delle sostanze. Tra le persone denunciate c’era anche lo scrittore Alexander Schiebel, autore del libro Il miracolo di Malles proprio sull’uso dei pesticidi nella zona e il comportamento degli agricoltori. Nel 2021 è stato assolto: “Una grossa vittoria per la libertà d’espressione”, ha commentato il suo avvocato.
Il Consorzio del prosciutto prova a oscurare gli animalisti
Sette anni per essere assolti dall’accusa di diffamazione e poter diffondere un video di 4 minuti e 18 secondi. Nel 2016 l’associazione Essere Animali ha diffuso le immagini registrate all’interno di un allevamento di suini in provincia di Forlì-Cesena, parte della filiera Consorzio del prosciutto di Parma. L’inchiesta, dal titolo Prosciutto crudele di Parma, documentava “lo stato di sofferenza e deperimento degli animali” ed è stata pubblicata sul sito www.prosciuttocrudele.it. Proprio grazie a quella rivelazione, la Forestale è intervenuta, confermando nel verbale la presenza di 550 suini detenuti in un capannone “con mantello molto sporco di feci”, “ferite alle orecchie” e “altre ferite dovute all’attacco da parte di altri suini”. Il Consorzio non ha solo preso le distanze dall’allevamento, ma ha anche querelato per diffamazione aggravata due fondatori di Essere Animali. Il Consorzio ha detto di avere “stringenti protocolli per gli allevamenti, ma non il compito di sorveglianza”. La tesi era che sarebbe stata l’associazione a danneggiare la reputazione del marchio Made in Italy, associandolo alle cattive condizioni dei suini. Accusa che non è stata accolta dalla giudice del tribunale di Ravenna: a novembre 2023 i due fondatori sono stati assolti perché sono stati riconosciuti i legittimi diritti di critica e di cronaca. La video-inchiesta, oscurata dalla polizia postale nel 2017, è stata resa visibile ben sei anni dopo e con lo stesso titolo. “Se fossimo stati condannati per le parole ‘Prosciutto Crudele’”, afferma Essere Animali, “avremmo vissuto la sentenza come una grave forma di censura. Hanno tentato di intimidirci, ma la comunicazione era ponderata”. Nel frattempo, il legale rappresentante dell’allevamento è stato assolto in primo grado dall’accusa di maltrattamenti, ma l’associazione e il pm hanno presentato appello.
La società energetica chiede di ritrattare un post su Facebook
Shpresa Loshaj è il volto delle battaglie ambientali nella valle di Deçan in Kosovo: qui, nel 2018, ha iniziato a contestare la società austriaca Kelkos Energy, l’impatto sulle zone ambientali protette delle loro centrali idroelettriche e lo scarso controllo delle istituzioni. Nel 2020 la società energetica, a causa di quelle proteste, l’ha querelata per diffamazione e ha chiesto 100 mila euro di danni. Addirittura, su Twitter, ha sostenuto di aver individuato più di 40 presunte diffamazioni pubbliche da parte della ong Pishtarët (in italiano “torcia”), fondata proprio da Loshaj. Ma lei non è l’unica a essere finita sotto accusa. Pochi mesi prima, l’azienda se l’era presa anche con Adriatik Gacaferi, attivista ambientale della stessa regione e ritenuto colpevole di aver scritto un post su Facebook particolarmente critico. Gli austriaci hanno chiesto: 10mila euro di danni, la rimozione del messaggio e la pubblicazione di un testo riparatorio. La sproporzione delle forze in campo ha scatenato una grossa mobilitazione e nel 2021 l’azienda ha annunciato il ritiro di entrambe le querele. “Kelkos Energy”, ha dichiarato Jelena Sesar di Amnesty International, “stava usando queste cause per intimidire e mettere a tacere gli attivisti. Shpresa Loshaj e Adriatik Gacaferi non avrebbero mai dovuto essere citati in giudizio”.
L’allevamento intensivo cerca di far tacere gli ambientalisti
Luis Ferreirim si definisce un ecopacifista, è il responsabile agricoltura di Greenpeace Spagna e ha dedicato la sua vita a battersi contro i mega allevamenti. Insieme ad altre 14 ong ha contestato la macro-azienda agricola Valle de Odieta, che da anni fa pressioni per aprire una struttura con più di 20 mila vacche nel piccolo paesino di Noviercas. Il gruppo di associazioni locali ha cercato di fermarlo presentando un rapporto al Parlamento della Navarra: 178 pagine di documenti sull’azienda che già gestisce una delle più grandi strutture del Nord della Spagna. Valle de Odieta, infatti, è stata oggetto di 19 procedimenti disciplinari del governo con varie accuse: scarsa cura degli animali, mutilazioni, uso di farmaci senza prescrizione e mancato rispetto dell’ambiente. E come ha risposto? Nel 2022 ha trascinato in tribunale Greenpeace e le altre ong con una proposta di conciliazione: se gli attivisti avessero ritrattato i contenuti del rapporto, l’azienda avrebbe rinunciato alle azioni legali. Nessuno di loro ha accettato di cedere. Pochi mesi dopo, un procedimento simile è stato aperto solo contro Ferreirim. «Sostengono – dice – che le mie affermazioni siano “false, calunniose e ingiuriose”. Ma io mi rifiuto di essere messo a tacere». Valle de Odieta ha avuto un anno di tempo per decidere se procedere con una denuncia per diffamazione: «Per ora tutto tace – spiega l’attivista, – ma i nostri avvocati sono prudenti perché ci sono molti ritardi nei tribunali. La notifica può arrivare da un momento all’altro e viviamo con l’ansia». In parallelo, grazie alla denuncia degli ambientalisti, è in corso un’indagine per danno ambientale nei confronti dell’azienda. «Ma la giustizia è molto lenta e nel frattempo loro continuano con le attività», chiude Ferreirim. «È importante parlarne perché, senza la pressione della società, le cose non possono cambiare».
I cittadini querelati per le frasi pronunciate in assemblea
Il caso è scoppiato grazie agli abitanti della valle del Tronto, in Abruzzo. E soprattutto grazie alle proteste di chi viveva vicino alla Stam, azienda che trasforma il compost in fertilizzante. Nel 2020, i residenti stanchi di respirare cattivi odori e di non vedere cambiamenti, hanno iniziato a mobilitarsi: è nato il gruppo Facebook “Basta puzza” e sono partite le assemblee. Si trattava di incontri civici, dove ci si trovava per sfogarsi e cercare soluzioni. E invece, proprio quegli spazi di partecipazione hanno rischiato di ritorcersi contro i cittadini. L’azienda infatti, mettendo sotto accusa alcuni interventi fatti in pubblico, ha deciso di far partire querele per diffamazione. Due in particolare hanno fatto rumore: quella contro la consigliera comunale di Colonnella (Te) Eleanna Pandolfelli e quella contro il presidente di uno dei comitati locali Luciano Grancioli. Del fatto non se ne è ne quasi parlato oltre i confini della Regione, eppure è esemplificativo di come la partecipazione dal basso possa venire colpita nel silenzio generale. A marzo 2021, il giudice ha deciso il non luogo a procedere. “Ciò che più mi dispiace”, ha detto Pandolfelli alla stampa locale, “è che altri cittadini siano stati querelati, loro sono le vere vittime di tutto e vanno protetti”. A marzo 2022, l’azienda è stata poi costretta a sospendere gli impianti per sei mesi: il Tar ha ritenuto valido il provvedimento di stop della Regione e ha stabilito che, come si legge nella sentenza riportata da il Centro, “il suo modus operandi ha arrecato un serio e grave pericolo immediato per la salute umana o l’ambiente”.
L’azienda belga contro due giovani che difendono il fiume
Sunčica Kovačević e Sara Tuševljak hanno 25 anni, studiano Giurisprudenza e da mesi si battono contro la costruzione di nuove centrali idroelettriche sul fiume Kasindolska in Bosnia. Il progetto è della società bosniaca Buk, controllata dalla belga Green Invest, ed è stato fin da subito contestato dagli ambientalisti: nel 2020 alcune associazioni hanno denunciato l’azienda per violazione degli standard ambientali e hanno portato il caso fin davanti alla Corte costituzionale. Come risposta, nel 2022, la Buk ha querelato per diffamazione due delle attiviste più giovani e chiesto 7.500 euro di danni. Inoltre ha minacciato nuove azioni legali se le due continueranno a protestare. In loro difesa c’è stata una sollevazione pubblica: una lettera di solidarietà firmata da quasi 150 associazioni è stata inviata alle autorità nazionali e internazionali per chiedere di fermare le querele. Kovačević, prima dell’udienza, ha diffuso un messaggio: “Questa infondata denuncia per diffamazione proviene da un’impresa che ha sede in Belgio e che non ha alcuna voce in capitolo sulla vita qui. Non conosce il nostro fiume, la sua bellezza né tanto meno i danni che la centrale idroelettrica causerebbe all’ambiente e alla foresta. È come se pretendesse di avere più diritti sul fiume rispetto a noi che ci siamo nate e vissute”. Di sicuro pretende che chi è contrario al progetto non faccia sentire la sua voce. E per questo a essere toccata, come in ogni processo contro i “public watchdog”, è tutta la società civile europea.