Stavo scrivendo una riflessione su Palazzina Laf, il coraggioso bel film di Riondino sul reparto confino all’Ilva di Taranto premiato con i David di Donatello, quando è arrivata la notizia della nuova strage sul lavoro.

A Casteldaccia di Palermo, cinque lavoratori impegnati nella manutenzione delle fognature hanno fatto la morte del topo. Il primo di loro probabilmente è stato soffocato da esalazioni di gas solforoso, e probabilmente uno alla volta i suoi compagni sono morti scendendo nel pozzo avvelenato nel generoso tentativo di salvare chi era svenuto.

Erano quasi tutti dipendenti di un appalto della municipalizzata Amap, azienda pubblica quotata in Borsa e in via di progressiva privatizzazione. Che come tutte le imprese del settore appalta al risparmio attività che una volta svolgeva in proprio con tutte le regole di sicurezza. Così anche a Palermo c’è stata un’altra strage ottocentesca, come quella di un mese fa a Bologna, di poche settimane prima Firenze, come quella di Brandizzo a Torino. Si accorciano i tempi tra un massacro operaio e l’altro, ma resta sempre la stessa causa: le più elementari norme di sicurezza, valide da almeno cento anni, non sono rispettate.

In questo caso sarebbe bastata una semplice maschera respiratoria, che dovrebbe essere in dotazione obbligatoria per chi scende in pozzi dove i liquami sprigionano veleni. E dovrebbe essere piena la conoscenza dei rischi e delle procedure per affrontarli. Dovrebbe, come dovrebbero esserci gli arresti automatici sui macchinari industriali, il blocco dei treni sulla linea se qualcuno ci lavora, il controllo sulla stabilità dei tetti dei capannoni in costruzione, così come quello sulla sicurezza degli impianti elettrici di una diga.

Non sono incidenti della tecnologia del XXI secolo quelli che fanno strage in Italia: le cause degli omicidi sono sempre semplici, persino antiche. Se nell’Italia di oggi migliaia di persone morissero di vaiolo o di difterite, sarebbe normale la domanda su come sia possibile che secoli di progresso siano stati cancellati. Sarebbe inevitabile mettere sotto accusa la regressione di un sistema nel quale si dovesse morire delle stesse malattie del passato.

Ebbene, di questi omicidi fondati sulla regressione sociale e civile del lavoro sono morte 15mila persone negli ultimi dieci anni, ma il sistema si sta semplicemente abituando alla strage.

Ecco, al lavoro sta succedendo questo: ogni progresso tecnico è stato cancellato da un sistema schiavista e mafioso di sfruttamento, che è diventato la normalità. Normalità alla quale si adattano lo Stato, le istituzioni, la politica e persino tante vittime. Perché così funziona il sistema: se vuoi lavorare, non rompere le scatole con diritti e sicurezza, altrimenti sei fuori. Il ricatto mafioso delle imprese impone uno sfruttamento che semplicemente mette la salute e la stessa vita di chi lavora all’ultimo posto.

E a proposito di ricatto mafioso, il film Palazzina Laf, a cui prima accennavo, ci racconta di come esso sia stato organizzato metodicamente dei vertici dell’Ilva per ottenere la piena sottomissione dei lavoratori. Il disprezzo della dignità e della vita delle persone nel nome delle supreme leggi del profitto si sono affermati ovunque nel mondo del lavoro, con il sostegno delle leggi dello Stato e dei comportamenti concreti dei governi.

La criminalità padronale può agire impunemente perché lo Stato è suo complice. Oggi rifiutare la legge sugli omicidi sul lavoro non è una scelta politica, ma un atto criminale. Il ministro Nordio, il governo Meloni, la Confindustria, che rifiutano questa legge nel nome della libertà d’impresa, sono politicamente e moralmente complici delta strage. Strage che non si fermerà finché non si avrà contro di essa la stessa reazione che nel passato ci fu verso i delitti di mafia.

Ho detto nel passato, perché oggi tutto si tiene – la strage del lavoro, la corruzione e gli affari mafiosi, la normalizzazione della guerra – tutto si intreccia e si alimenta in una spirale di degrado. Dobbiamo affrontare la strage di lavoro come una strage di Stato, di uno Stato privatizzato e corrotto di cui crollano le fondamenta, così come gli edifici crollano addosso a chi li costruisce.

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