A sei mesi esatti dall’Election Day, il 5 novembre 2024, la media dei sondaggi calcolata da uno dei siti di riferimento nella corsa alla Casa Bianca, Fivethirtyeight.com, dà Donald Trump avanti di un punto su Joe Biden, 41,6 a 40,6. Il terzo incomodo Robert F. Kennedy jr, che non si capisce ancora a chi tolga più voti, è al 9,8%. Jill Stein al 3% e Cornel West al 2% restano marginali.
Le cifre sono ancora volatili: il distacco fra Trump e Biden è largamente inferiore al margine d’errore dei sondaggi. E i rilevamenti a livello nazionale contano poco, perché le presidenziali Usa non sono decise dal voto popolare, ma dal voto, Stato per Stato, dei Grandi Elettori. Dunque, meritano più attenzione i dati dagli Stati in bilico: Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, nella ‘cintura della ruggine’ manifatturiera; North Carolina e Georgia, nel Sud; Nevada e Arizona, tra Montagne Rocciose e Far West: lì, Trump è mediamente in vantaggio su Biden, ma Biden vi sta facendo campagna con maggiore intensità. Anche se il magnate candidato tira sempre fuori espressioni esagerate: a un evento a Mar-a-lago aperto ai suoi donatori, ha paragonato l’Amministrazione democratica alla Gestapo, la famigerata polizia segreta nazista.
Trump sente il bisogno di farsi sentire perché, da tre settimane e prevedibilmente per altre tre almeno, fino a fine maggio o a inizio giugno, è bloccato a New York: deve presenziare alle udienze del processo, giunto più o meno a metà strada, per avere comprato in nero il silenzio della pornostar Stormy Daniels, all’anagrafe Stephanie Clifford, su una loro presunta relazione – lui nega – avuta nel 2006. Obiettivo dell’accusa: dimostrare che la vicenda non è (solo) una questione di corna, ma confermare l’esistenza di uno schema, orchestrato e finanziato da Trump, per evitare che gli elettori ricevessero informazioni negative sul suo conto durante la campagna elettorale di Usa 2016.
Sul banco dei testi sono già passati, fra gli altri, l’editore della rivista che comprava l’esclusiva di interviste e non le pubblicava; l’avvocato dei ‘ricchi e famosi’ che avevano storie da farsi comprare; il bancario che faceva tornare i conti con l’avvocato e faccendiere del magnate candidato; e infine l’ex manager della sua campagna, e poi direttrice delle comunicazioni alla Casa Bianca, Hope Hicks, che stava per scoppiare in lacrime, conscia di raccontare cose che possono nuocere al suo ex boss. Mancano ancora i due testi chiave, entrambi ‘scivolosi’ per l’accusa perché attaccabili dalla difesa: l’avvocato faccendiere Michael Cohen, già condannato del suo e bandito dall’ordine degli avvocati; e la pornostar Stormy Daniels, che ha costruito su questa vicenda un’ulteriore notorietà. Non si sa, invece, se la difesa chiamerà a deporre l’imputato: questo significherebbe esporlo alle sue stesse intemperanze verbali e al contro-interrogatorio dell’accusa.
Se Trump ha l’handicap del processo, Biden, come candidato, ha l’handicap di fare il presidente: mestiere molto difficile, con il peso delle guerre e della routine, i migranti, il costo della vita che non decelera, la crescita che non è sufficiente a compensarlo. Tutti fattori che possono alienargli favori più che conquistargliene: si vedano le proteste dei giovani nelle Università contro lo sterile e fin qui molle atteggiamento degli Stati Uniti nel conflitto mediorientale.
Sul magnate, in teoria, pesano altri processi e altre grane giudiziarie, penali e civili. E altre se ne aggiungono: in Arizona e Michigan, Trump viene classificato come ‘co-cospiratore non indagato’ nelle inchieste in corso sui tentativi di rovesciare il risultato delle elezioni nel 2020 – Trump perse entrambi gli Stati, vinti da Biden.
In Arizona, una decina di suoi sodali e fedelissimi, tra i quali l’ex capo dello staff della Casa Bianca Mark Meadows, l’ex avvocato e sindaco di New York Rudy Giuliani e l’ex assistente e tuttora consigliere del magnate Boris Epshteyn sono indagati, secondo quanto riferiscono fonti di stampa. In Michigan, invece, sono già state formulate accuse contro 15 repubblicani che hanno agito come falsi elettori per l’ex presidente. Ma a togliergli dal fuoco le castagne più grosse ci pensa la Corte Suprema, che deve pronunciarsi sulla pretesa di immunità dell’ex presidente nel processo per l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Secondo indicazioni raccolte da fonti vicine alla Corte Suprema, i giudici faranno conoscere la loro opinione prima dell’estate; intanto gli altri processi già delineati, a Washington per l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio, in Georgia per i tentativi di rovesciare l’esito del voto e in Florida per le centinaia di documenti segreti sottratti alla Casa Bianca restano bloccati.
La Corte Suprema non accoglierà probabilmente la pretesa di immunità di Trump per tutto quello che fece quando era presidente, ma s’accinge a fare il suo gioco, anzi lo ha già fatto: accettando d’esaminare la sua richiesta, che poteva benissimo rigettare perché infondata; e disponendosi – pronosticano sui media numerosi esperti giudiziari – a chiedere alle corti che gestiscono i casi contro Trump di fare un distinguo fra gli atti compiuti da presidente e quelli compiuti da privato, cioè, nelle circostanze, da candidato alla presidenza.
La Corte potrebbe tracciare essa stessa una linea di demarcazione o lasciare il compito alle corti, dando la stura a ulteriori contestazioni. Se tale richiesta sarà contenuta nella sentenza della Corte, che sarà resa nota tra fine giugno e inizio luglio, i giudizi in sospeso potranno difficilmente iniziare prima delle elezioni e, comunque, non si concluderanno prima del voto. Tanto più che il magnate persisterà nelle sue tattiche dilatorie che stanno funzionando, con l’avallo d’una Corte Suprema molto conservatrice: su nove giudici, sei sono di destra e tre di essi sono stati designati da Trump.
Resta, dunque, il processo di New York, che riguarda fatti precedenti la presidenza di Trump, su cui non v’è modo di invocare l’immunità, ma che sono anche meno clamorosi e che sono percepiti dalla maggioranza degli americani come eticamente scorretti, ma non necessariamente come reati. Resta l’interrogativo perché ci siano voluti quasi tre anni per incriminare l’ex presidente per l’insurrezione del 6 gennaio, quando centinaia di facinorosi erano già stati processati e condannati, e per i tentativi di rovesciare l’esito del voto del 2020: partita in ritardo, la giustizia rischia di finire fuori tempo massimo.