Correva l’anno 1983: pochi ricorderanno uno dei più clamorosi scandali pre-tangentopoli, l’arresto dell’allora Presidente della Regione Liguria, il socialista Alberto Teardo, cui fece seguito una pesante condanna per corruzione, concussione, associazione a delinquere. Oggi che una nuova inchiesta giudiziaria colpisce i vertici politici liguri qualcuno sarà forse interessato a rispolverarne la memoria, facendo paragoni. E’ un esercizio utile, perché la pratica della corruzione in Italia ha radici profonde e tenaci, e la comparazione può aiutarci a capire l’evoluzione sotterranea di questa malapianta.
Nello scandalo di quarant’anni fa il boss socialista Teardo risultò essere il dominus incontrastato di un circuito di corruzione sistemica imperniato sul ruolo egemone dei partiti – quello socialista in particolare, decisivo per la formazione di ogni possibile maggioranza nel governo regionale – nella deliberazione delle scelte di programmazione e indirizzo politico locale. I suoi compagni di partito e i funzionari con cui spartiva le mazzette, il cartello di impresari edili che lo compensava a suon di tangenti per i lavori pubblici ottenuti con regolarità, persino il clan ‘ndranghetista con cui all’epoca intratteneva rapporti amichevoli, si ponevano nei suoi confronti in una posizione di riconosciuta sudditanza.
A leggere le cronache giudiziarie di questi giorni quegli equilibri di potere – parimenti inquinato – si sono rovesciati. A pianificare di fatto interventi pubblici e speculazioni edilizie, a decidere dove e quando aprire supermercati, quali spiagge libere privatizzare nell’interesse dei costruttori, a chi assegnare concessioni trentennali di terminal portuali – giusto per citare alcune delle poste in palio, secondo la Procura di Genova – sono i dirigenti e i manager delle imprese, che senza colpo ferire ottengono da politici e funzionari compiacenti tutto quello che occorre a ingrassare di profitti illeciti i loro bilanci. In questo caso, al pari di quanto osservabile in altre clamorose vicende giudiziarie di corruzione degli ultimi anni, dal Mose all’Expo a Mafia capitale, i vertici politici, i manager pubblici e i funzionari mettono in vendita la loro funzione per quello che appare un modesto obolo. La sproporzione tra l’ingente valore economico delle contropartite assicurate ai corruttori e la “mancia elettorale” ricevuta dal politico, o il prezzo di vacanze e regali pagati al funzionario, la dice lunga sul nuovo baricentro del potere negoziale nei patti di corruzione, saldamente nelle mani di chi regge i cordoni della borsa.
A dettare legge sono i nuovi corruttori, a fronte di una classe politica con il cappello in mano, appesa alla precarietà di competizioni elettorali dagli esiti sempre più incerti e imprevedibili in un contesto di avanzata destrutturazione dei partiti, astensionismo dilagante, altissima volatilità del voto. Non a caso, in questo come in pressoché tutti i casi di corruzione politica degli ultimi anni, i flussi di denaro qualificabili come tangenti assumono le vesti più ambigue di “elargizione liberale” indirizzata all’ennesima associazione o fondazione costruita ad hoc per promuovere ambizioni e fortune politiche del leader di turno. Nonostante i vani tentativi legislativi di regolazione, si tratta ancora di organizzazioni a tutti gli effetti prive di controlli sostanziali, senza alcuna concreta vita associativa o partecipazione, nessun obbligo reale di trasparenza, né vincoli di rendicontazione: un buco nero della democrazia, dove decisioni politiche negoziate nell’ombra possono facilmente trasformarsi in un mercato, messe in vendita al miglior offerente.
Nel caso ligure, il Presidente posto agli arresti domiciliari si è formalmente emancipato dal suo stesso partito di provenienza, costruendosi – oltre alla canonica associazione politica ad personam – anche una lista ad hoc, un mini-partito famelico di finanziamenti e pubblicità, indispensabili per alimentare i propri non indifferenti successi elettorali. Senza più il collante, la regolazione e la supervisione esercitata dalle strutture dei “vecchi” partiti – una funzione utile persino nel disciplinare i patti illeciti – i tanti capi-bastone localmente egemoni sono così riusciti a consolidare la presa sui tanti rispettivi micro o macro-feudi personali. In altre parole, si sono fatti artefici di vere e proprie “macchine politiche” operanti su due livelli: in quello superiore funziona un meccanismo selettivo di scambio occulto, dove gli interlocutori privilegiati sono soggetti portatori di interessi imprenditoriali preponderanti, dei quali si pongono al servizio in cambio di contributi elettorali; in quello inferiore, opera una rete di elargizione di favori clientelari alla massa dei potenziali elettori, ai quali si assicurano piccoli benefici, dalla promessa dell’agognato posto di lavoro alla selezione per una casa popolare.
Se occorre – specie in una regione come la Liguria, che ha già conosciuto l’onta di ben tre decreti di scioglimento di Comuni per infiltrazione mafiosa – potrà risultare conveniente anche allacciare “relazioni pericolose” coi referenti di clan mafiosi, capaci di esercitare un’efficace attività di intermediazione con le comunità dei rispettivi paesi di provenienza, convogliando circoscritte – ma affidabili, in quanto fidelizzate – manciate di voti verso i rispettivi candidati e interlocutori politici. Ed è facile prevedere che i gruppi mafiosi, una volta strette le intese sul tavolo elettorale, più avanti potranno facilmente dar seguito coi medesimi interlocutori istituzionali a ulteriori partite su altri, più redditizi terreni di scambio.
Vale infine la pena sottolineare come – in questa come altre recenti vicende giudiziarie di corruzione – i soggetti coinvolti adottino consapevolmente una serie di strategie intese a dissimulare, nascondere, mascherare la natura “transazionale” delle loro relazioni. Nell’italica corruzione è chiaramente rilevabile un processo di “learning by doing”, ossia impara facendolo, o per meglio dire “impara corrompendo”. Non sappiamo se le ipotesi accusatorie dei magistrati reggeranno fino al terzo grado di giudizio – sempre che nel frattempo la prescrizione, o una delle tante riforme pseudo-garantiste del procedimento penale o dei reati di corruzione messe in cantiere dal guardasigilli Nordio, non assicurino anche in questa vicenda l’impunità ai protagonisti. Di certo il passaggio dalle volgari mazzette di denaro che finivano nelle tasche del Presidente ligure Teardo quaranta anni fa ai ben più sofisticati meccanismi di contribuzione utilizzati oggi – in un’intercettazione di qualche anno fa un faccendiere li descriveva come “tangenti pulite e fatturate” – renderà estremamente più ostico il lavoro dei magistrati.
Da ultimo, è evidente la totale amnesia, e conseguente apatia, di questo esecutivo di estrema destra e della maggioranza che lo sostiene sui pericoli di corruzione, frodi e abusi di potere nella gestione della cosa pubblica. A fronte dell’accelerazione forzosa delle scelte pubbliche, esemplificata dal “codice Salvini” degli appalti, e dell’indebolimento programmato di tutti i presidi anticorruzione (dalla magistratura all’Anac, dalla Corte di Conti alla libera informazione), ispirati a una presunta efficienza intrinseca del “fare”, l’inchiesta della Procura di Genova ci fornisce una lezione illuminante. In Italia la pratica della corruzione, più o meno strutturata, non rappresenta affatto un “pedaggio” occasionale per conseguire, magari più rapidamente, finalità di interesse pubblico. Al contrario, nel “mondo alla rovescia” della corruzione sistemica ad essere velocizzati in via prioritario sono proprio quei processi decisionali che più deturpano i beni comuni, che saccheggiano le risorse collettive di maggior pregio, arricchendo proporzionalmente i componenti dei comitati d’affari dove si saldano gli interessi di corrotti e corruttori.
Quale miglior esempio della privatizzazione a vantaggio dei facoltosi proprietari di appartamenti di lusso, dietro compenso occulto al decisore, di una spiaggia in precedenza liberamente accessibile a tutti?