Una prima mondiale che approderà nel 2025 al Théâtre de la Ville di Parigi nel segno del progetto “L’attrice e l’attore europei” nato da Marco Giorgetti ed Emmanuel Demarcy-Mota
Un altro capolavoro. E il discorso potrebbe finire qui. Ma occorre spiegare. O quanto meno provarci con le parole che ci restano. Perché dallo spettacolo “Pessoa – Since I’ve been me” del grande regista statunitense Robert Wilson, al teatro della Pergola di Firenze fino al 12 maggio, si esce con la sensazione che non ci sia davvero nulla che possa esprimere quanto rappresentato in forma perfetta sul palcoscenico. Una prima mondiale che approderà nel 2025 al Théâtre de la Ville di Parigi nel segno del progetto “L’attrice e l’attore europei” nato da Marco Giorgetti ed Emmanuel Demarcy-Mota. “Since I’ve been me”, ispirato a un frammento de “Il libro dell’Inquietudine” del poeta portoghese Fernando Pessoa, stupisce, inquieta, rapisce, incanta, dona. E’ come salire su una giostra di vertigine fra gioia e tristezza, quiete e movimento, immobilità e azione, suono e silenzio, singolarità e pluralità: un viaggio nella realtà del sogno e nell’inaffidabilità del concreto. Chi siamo? Chi siamo stati e chi saremo? La nuova opera di Bob Wilson, a mezzo secolo dalla Rivoluzione dei Garofani che riportò la democrazia in Portogallo dopo anni di dittatura, è un omaggio a Pessoa e alla sua moltitudine di aspetti e personaggi. Il poeta portoghese scriveva sotto nomi diversi: non pseudonimi ma eteronimi.
Sono i molteplici sé del poeta che animano “Since I’ve been me” come in un prisma su cui si riflettono diversi personaggi. “Tante personalità quante ce ne sono in te, in me e in tutti noi”, spiega lo stesso Wilson. Entrano ed escono dallo spazio scenico senza fare un passo, solo rimanendo a un tratto immobili, illuminati dalla luce oppure oscurati. Qualcuno ride. E in quella risata, così come nell’improvviso scrosciare della pioggia, nel frastuono di vetri che si rompono, nella sirena di una nave, nel ticchettio di una macchina da scrivere ricominciano a vivere. Oppure rimangono in penombra come figurine buffe di cartone, eroi del passato che ora ci fanno sorridere.
L’artista, autore anche della scenografia e dell’eccezionale disegno luci, coadiuvato alla regia da Charles Chemin, con la drammaturgia di Darryl Pinckney e i costumi di Jacques Reynaud, sceglie di porre omaggio a Pessoa con una produzione internazionale. Il progetto, prodotto dal Teatro della Pergola di Firenze e dal Théatre de la Ville di Parigi e coprodotto da Teatro del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile di Bolzano, São Luiz Teatro Municipal di Lisbona, Festival d’Automne di Parigi in collaborazione con Les Théâtres de la Ville di Lussemburgo, mette insieme attori di differenti paesi e background culturali. Sono Maria de Medeiros (Pessoa), Aline Belibi, Rodrigo Ferreira, Klaus Martini, Sofia Menci, Gianfranco Poddighe, Janaína Suaudeau, artisti dal potente talento che recitano in quattro lingue: portoghese. inglese, francese, italiano (con sottotitoli). Perché? “Pessoa era un uomo fatto di tante diverse ‘persone’, era un portoghese cresciuto in Sudafrica. Come tutti noi, era pieno di molti personaggi”, rivela il regista.
La prima immagine è una barchetta di carta che scorre su una linea immaginaria, come quelle che si facevano a scuola. E’ la risata di un bimbo che diventerà, intrappolata in una voce adulta, un ritmo, una sorta di incipit che si ripete. Ma lo spettacolo si costruisce a poco a poco, frase dopo frase, immagine dopo immagine. Le parole prima scorrono solitarie, poi si arricchiscono di altre parti, infine si perfezionano nel tentativo di cogliere una qualche verità. “In fondo cos’è l’uomo se non un insetto che ronza contro il vetro di una finestra” recita una parte del testo.
Non ci sono risposte. Solo domande che durante lo spettacolo, però, sembrano arrivare a un passo dalla risposta. Invece no. I gesti degli attori all’improvviso si fermano, lo spazio animato diventa fisso come in una foto, la voce si interrompe. Gli interrogativi rimbalzano dal palco alla platea e viceversa aprendo a riflessioni sulla vita, sulla morte, sull’amore, sull’identità, sulla verità, sulla finzione, su Dio, sulla memoria. “La mia anima si è rotta come un vaso vuoto …. Sono una pioggia di cocci su uno zerbino da scuotere”, recitano gli attori in varie lingue. E poi: “Un coccio, girato dalla parte esterna lucente, brilla fra gli astri. La mia opera? La mia anima principale? La mia vita? Un coccio”. “Wilson è sensibile quanto Pessoa alla realtà dei sogni e all’inaffidabilità del concreto”. spiega il drammaturgo Darryl Pinckney. “Emozioni e sensazioni sono misteri. La forza dell’immaginazione poetica di Pessoa sta nella sua volontà di scrivere e continuare a scrivere contro ogni dubbio. Catturare l’essenza della relazione dell’anima umana con il mondo fisico è il suono della sua ricerca”, racconta.
Nella danza e canto finali in abiti da marinai, un po’ alla maniera del varietà, le voci dei personaggi tornano a essere singolari. Allegre. La scena più coinvolgente vedeva i sette personaggi ciascuno di fronte a un tavolo: parlavano a turno ma poi le loro voci in lingue diverse si sovrapponevano fino a creare un suono unitario tanto potente quanto incomprensibile. Ed è come tornare all’inizio dello spettacolo. A quella risata di bambino a cui Pessoa dice di approdare dopo esseri tolto la maschera. Per poi indossarla di nuovo. “Se non sai ridere, non fare teatro. In qualche modo, devi farti quella risata”, conclude Bob Wilson.