“Parlo di orgasmo con Dio, ma lui quell’argomento non l’ha mai esaminato”. È un Gino Paoli in forma smagliante quello che inaugura il Salone del Libro di Torino 2024. Sala Rossa gremita coi vessilli della Regione Liguria – regione ospite del Salone – per celebrare cantautori e poeti liguri. Cosa farò da grande (Bompiani) si intitola la biografia dell’oggi 90enne cantautore genovese che in un’oretta di incontro ha sfiorato con la sua solita ruvida, toccante, incisiva poesia varie questioni sulla sua carriera, la sua creazione artistica, le amicizie e l’esistenza.
A partire da quel Cielo in una stanza, canzone epocale, che, appunto, Paoli nel libro ricorda così: “Volevo descrivere un orgasmo, qualcosa di non descrivibile, qualcosa che nel momento stesso in cui inizia finisce, qualcosa di ineffabile, con tutto quello che sta attorno ai quei corpi che si abbandonano dopo il sesso”. Certo l’incredibile origine del brano la conoscevamo, ma è tutto ciò che Paoli ci ha costruito attorno durante l’incontro torinese che affascina e fa sorridere. “L’orgasmo l’hanno provato quasi tutti ed è qualcosa di incomprensibile. Perché non so cos’hanno provato quelli che l’hanno provato, ma a me ha proiettato in una dimensione che non esiste e non conosco. E non è giustificato dal fatto che ami o non ami una persona, che sia bella o brutta. Quando sei arrivato a quello è uguale per tutti. Questo ho cercato di descrivere nella mia canzone. È qualcosa di non umano che viene da chissà dove”.
Paoli ha poi voluto sottolineare che l’interrogativo spesso lo pone a Dio: “Parlo ogni tanto con il Padreterno, ma quell’argomento lì non l’ha mai esaminato. Gli chiedo cosa vuole dire l’orgasmo. Se è qualcosa che ti avvicina a Dio o che ti allontana? A me sembra che mi avvicini”. Il cantautore genovese ha voluto ricordare gli amici di un tempo: Tenco, Lauzi, Bindi, Paolo Villaggio; ma anche Beppe Grillo (“si trovava a casa mia quando disse di voler fondare il Movimento 5 Stelle”) e Antonio Ricci (“mente sopraffina e diabolica”). Paoli ha ricordato come il suo approccio e quello della scuola genovese fosse originale, inedito, perché incarnato nella verità: “Facevamo qualcosa di diverso che non era dentro ai canoni su come si fa una canzone e cosa questa deve dire. Noi volevamo esprimere noi stessi. L’emozione è un fatto astratto, nessuno può definirla. Bisogna creare qualcosa che somiglia all’emozione che è dentro di te e che sente il bisogno di uscire”.
Due anni, gli ultimi, di lontananza dai palchi prima per una labirintite che non gli permetteva nemmeno di stare in piedi, poi per il Covid (“potevo non prendermelo?”). “L’ultima volta ho cantato a Milano e un giornalista ha poi scritto che non capiva che pubblico c’era in sala: perché c’erano tutte le forze politiche, come persone di tutte le età. Io non sono un qualunquista e non mi rivolgo ai giovani come tutti i miei colleghi dicono, a me non frega niente. Io parlo con delle solitudini, qualsiasi solitudine. La mia funzione, il mio scopo è parlare con le solitudini. Quando devo cantare davanti ho 500 solitudini. La massa non mi interessa, mi piace che ogni persona con cui parlo comincia a parlare con se stessa. Per questo ho fatto il cantante, altrimenti avrei fatto il tabacchino”.
Infine l’ultima crepuscolare sentenza: “Non mi piace il mondo, non mi piace la cattiveria, non mi piace la violenza. Una volta il mio amico Tinin Mantegazza mi ha mandato un bigliettino con scritto “viva la bontà”e basta. Ecco, ha detto una cosa che noi non abbiamo il coraggio di dire e sentire. Tutto quello che viene fatto nel mondo oggi è sotto il segno della cattiveria, dell’invidia, della competizione, quando la bontà è la cosa più bella di questo mondo. Lo dico spesso a mia moglie Paola: io me ne vado tra poco, l’età è quella, ma non mi dispiace di andarmene perché il mondo mi piace sempre meno, anzi per nulla”.