Oggi ho osservato un bambino di 11 anni (che a quell’età dovrebbe cantare e correre nei prati) tremare di paura. Ho visto un altro bambino immobile, con lo sguardo spento e con le lacrime agli occhi dirmi ‘Maestra, sono incapace’”. A scriverci queste parole è Marta Branda, 26 anni, precaria sul sostegno alla scuola primaria e attualmente borsista di ricerca al dipartimento di psicologia dell’ Università degli Studi di Milano Bicocca. Marta fa riferimento nella sua lettera a ilfattoquotidiano.it al test Invalsi.

Ho visto un bambino con evidenti problemi socioculturali non in grado di svolgere un’ardua comprensione del testo, complessa anche per una madrelingua, ma impossibilitato ad essere esonerato dalla prova perché senza una diagnosi alla mano (e poi ci chiediamo perché la patologizzazione infantile raggiunga picchi sempre più alti: avere una diagnosi, oggigiorno, è necessario per garantire quelli che dovrebbero essere i diritti di ciascun bambino e, delle volte, non basta). Ho visto una classe in gamba, preparata, valida, capace di autoanalisi, di riflessione, di ragionamento e problem-solving, essere sopraffatta dall’ansia da prestazione di fronte a una mera comprensione del testo che richiedeva non solo conoscenze didattiche e competenze trasversali, ma anche un carico eccessivo di attenzione, concentrazione e impegno. Una classe che ha alle spalle un percorso ricco ed innovativo, grazie a un team docenti preparato e attento a ogni singolo aspetto formativo: alle esigenze delle individualità e del gruppo, alla didattica, agli aspetti educativi che caratterizzano profondamente il loro percorso, immerso in un sistema complesso, un macrocontesto scolastico armonioso e in grado di utilizzare metodologie innovative al fine di sviluppare competenze trasversali e di creare un ambiente ricco, stimolante, inclusivo senza perdere di vista obiettivi a breve, medio e lungo termine: comprendere, capire, formare e promuovere lo sviluppo non solo di bambini, ma di futuri cittadini. Per quale motivo i bambini vengono trattati dallo Stato come se fossero variabili di un algoritmo? Per quale motivo si ha la necessità di entrare in competizione per eccellere? Per quale ragione un bambino debba perdere la propria identità per misurare delle prestazioni fittizie e prive di significato perché estrapolate da contesti specifici e da individualità non considerate? Ha davvero senso la strumentalizzazione di un bambino nel corso del suo sviluppo per valutare un sistema più complesso, più articolato, estremamente eterogeneo e non generalizzabile? No, la preparazione e la formazione di un docente non emergeranno da un fascicolo che non considera tutte le variabili contestuali. No, i bambini che mi riempiono il cuore ogni giorno con la loro particolare soggettività, il loro vissuto, la loro storia, le loro ingegnose affermazioni, il loro modo unico e meraviglioso di vedere il mondo, non sono una variabile qualitativa generalizzabile misurata da un fascicolo. E se questo è quello che il sistema faccia sì che un bambino possa anche solo minimamente pensare, miei cari esperti dell’educazione e della formazione, avete fallito in toto”.

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