Da alcuni anni si è interrotto, anzi frantumato, il rapporto tra le PA e i professionisti tecnici. Basato sino a poco tempo fa da stima, collaborazione e considerazione, questo rapporto si è trasformato in una sudditanza che rasenta lo schiavismo. E non si tratta di relazioni tra megadirigenti e neofiti della professione, anche perché per essere incaricati per opere pubbliche dalla PA, occorre possedere un solido e certificato curriculum, oltre che requisiti eccezionali.

L’incarico, che può essere conferito dopo un bando o perlomeno una manifestazione d’interesse, a fronte del controllo preventivo dei requisiti economici e tecnici, questi ultimi suddivisi per classi e categorie dei lavori svolti, viene affidato dopo un’accurata selezione. Una volta perfezionato il contratto, chiamato convenzione, con decine di documenti e pagamento delle spese di registrazione a carico del professionista, si procede quasi sempre in tempi strettissimi, alla elaborazione del progetto con la parte architettonica, strutturale, impiantistica, il piano di sicurezza per la parte sia grafica (mai meno di 25/30 tavole) che per quella amministrativa (un’altra trentina di elaborati).

Qui inizia già la prima contraddizione: al professionista vengono chiesti tempi strettissimi nell’elaborazione del progetto e la formalizzazione del contratto avviene dopo molto tempo. Il tutto viene poi inviato a Soprintendenza e Vigili del Fuoco: entrambi gli Enti, nelle approvazioni, mettono la clausola che il progetto a loro trasmesso e approvato, non venga cambiato neanche di una virgola.

Ora succede che dopo aver acquisito il progetto, ma non ancora pagato, i pagamenti avvengono dopo due o tre anni, il Responsabile unico del procedimento (Rup) decida che il progettista non conti più niente, per cui viene allontanato, rottamato, a volte mutando, senza il suo consenso, particolari del progetto fondamentali per la sua riconoscibilità. Per i funzionari pubblici – debite eccezioni a parte – è una pratica, per chi ci ha messo professionalità, impegno, passione, cuore, è un progetto ed ogni progetto è come un figlio, come diceva Borromini.

Il lavoro di mesi, la fatica, le spese per raggiungere quei risultati condivisi con chi ne fruirà e con gli Enti, viene ignorato, se non irriso, impedendoti addirittura di andare a vedere la tua opera: mi è successo recentemente nei Provveditorati alle Opere Pubbliche della Lombardia e Toscana, finiti faticosamente – e dopo molti anni – i lavori, anche perché non seguiti, pungolando imprese come si dovrebbe, evitano accuratamente di invitarti alle inaugurazioni, dove ovviamente si prendono meriti non loro. Ecco io mi sento da un po’ di anni un utero in affitto, o meglio sedotta ed abbandonata dopo il concepimento di un figlio per amore e poi lasciata per strada dopo averle strappato la creatura.

A nulla valgono i tuoi appelli ai cosiddetti “stakeholder” intimoriti dai Rup, che pure in fase di definizione del progetto, ti hanno subissato di elogi ed encomi. Ma il progettista che non appartiene a cerchi magici delle élite politico-mediatiche, tanto da bypassare selezioni e gare, viene anche sottoposto all’umiliazione di sconti assurdi e di ulteriori prestazioni a titolo gratuito.

Proprio in questi giorni, riguardo al caso Scurati, molti hanno rivendicato con forza che il lavoro intellettuale vada pagato e bene: non è il caso nostro che, ad esempio, oltre che per elaborati tecnici, ci impegniamo ina lunghe sessioni in archivi per documentare l’evoluzione storico-architettonica anche a beneficio delle Soprintendenze, che a volte esprimono pareri senza aver effettuato il sopralluogo ed aver consentito manomissioni nelle epoche precedenti i tuoi interventi.

Alcuni anni fa scrissi un pezzo su Plautilla Bricci, l’architettrice che, a metà del 1600, godeva di massima considerazione dal suo committente, un uomo di grande potere come Elpidio Benedetti: ciò però non avviene più. Il risultato di tutto questo non è non buona architettura: vengono privilegiati i grandi studi e le cosiddette archistar alle quali non viene chiesto un’esperienza specifica nel settore come prevede la L.50/2016. Adesso vengono incaricati, anche per interventi delicati di restauro di edifici rappresentativi di un’epoca, architetti digiuni della materia ma ormai è un’abitudine cui nessuno fa più caso. La tutela, la cura anche nei dettagli, non sono un fine per la conservazione della bellezza.

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