Domani sono cinquant’anni da quel 12 maggio 1974. Un altro mondo, un’altra Italia, un altro calcio. Nel giorno del referendum sul divorzio, che dimostrava come il Paese fosse cambiato almeno un po’, il primo scudetto arrivato a Roma nel dopoguerra lo portò la Lazio, risalita due anni prima dalla Serie B. Una squadra allenata da un gentiluomo di grande intelligenza, Tommaso Maestrelli, che dopo l’Armistizio del 1943 aveva combattuto contro i nazisti tedeschi nella ex Jugoslavia e si ritrovò a governare una banda di calciatori scalmanati e all’apparenza ingestibili. È un’esagerazione retorica ridurli tutti a un manipolo di pistoleri fascistoidi, però le armi nello spogliatoio c’erano. Alcuni in ritiro ammazzavano il tempo sparando ai segnali stradali e ai lampioni.
“Ribelli anarchici”, ha scritto Gigi Martini, terzino di spinta assai moderno per l’epoca, poi pilota Alitalia e deputato di Alleanza Nazionale. Erano divisi in due clan che se le davano di santa ragione in allenamento a Tor di Quinto, non si parlavano, ma poi la domenica si ricompattivano tutti dietro a Giorgio Chinaglia, Long John, il centravanti un po’ ingobbito che la buttava dentro di forza, immortalato col dito puntato verso la Curva sud romanista, celebre anche per il plateale “vaffa” al ct della Nazionale Ferruccio Valcareggi. Non voleva perdere nemmeno in allenamento, Giorgione, nato povero da carraresi emigrati in Galles. Poco dopo lo scudetto andò negli Usa, nei Cosmos di New York, a giocare con Pelè e Beckenbauer, ma poi tornò alla Lazio per una breve sfortunata esperienza da presidente a cavallo della metà degli anni 80. Qualcuno pensò di nuovo a Chinaglia, nei primi Duemila, per liberarsi di Claudio Lotito. Fascista, si disse, perché aveva parlato bene di Giorgio Almirante, ma poi si candidò invano con la Dc. La Lazio di oggi celebrerà prima e dopo la partita delle 12,30 con l’Empoli l’impresa del 1974.
“Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia”, del resto, i laziali lo cantano ancora. La foto di Chinaglia che legge il giornale al tavolino di un bar sotto la scritta “Laziali bastardi” è diventata quasi un brand. Lo scudetto di cinquant’anni fa è nel cuore di tutti i tifosi, più di quello vinto nel 2000 dai campioni di Sergio Cragnotti e Sven Goran Eriksson. Perché fu il primo, certo. Perché fu il trionfo dell’orgoglio laziale, l’orgoglio di minoranza di “scegliere una maglia che per una volta a Roma non vuole rappresentare nessuno, soltanto se stessa”, ha scritto Stefano Ciavatta nel suo “Manuale di chi tifa Lazio” (Fandango, 2014). E anche perché da decenni fioccano libri e rievocazioni: “Pistole e palloni” (Limina, 2004) è il più fortunato titolo di Guy Chiappaventi, che quest’anno ha scritto “12 maggio – Cinquant’anni dopo” (Milieu). L’elenco delle pubblicazioni è strabordante.
Diversi protagonisti del 1974 sono stati e sono tuttora ospiti fissi delle radio che a Roma alimentano il tifo. Oggi tocca anche ai figli, in primis Massimo Maestrelli, che il padre portava in campo da bambino insieme al gemello Maurizio: ha scritto “Due bambini e un sogno” con Giulio Cardone e Marco Patucchi (la Repubblica, 2024). Due “eroi” del ’74, Giancarlo Oddi e Franco Nanni, ancora oggi battibeccano sulle infuocate partitelle di allenamento nella serie “Grande e maledetta” di Sky. Dopo lo scudetto furono esclusi dalla Coppa dei Campioni perché l’anno prima avevano maltrattato l’arbitro durante una partita di Coppa Uefa con l’Ipswich Town. Fecero di nuovo la Uefa e la politica spinse il club a rifiutarsi di ospitare il Barcellona per protesta contro le nefandezze del franchismo morente: la Lazio perse a tavolino. Presidente era Umberto Lenzini, er sor Umberto, costruttore, anzi palazzinaro in una capitale che cresceva senza regole.
Le maledizioni non esistono, ma a nutrire il mito è stata anche la serie di morti premature che ha segnato quella Lazio. Maestrelli, il Maestro, se ne andò per un tumore alla fine del 1976. “Su c’è er Maestro che ce sta a guarda’” è l’ultima strofa dell’inno tuttora diffuso all’Olimpico, “So’ già du ore”, di Aldo Donati. Nel gennaio 1977 Luciano Re Cecconi detto Cecco, l’angelo biondo, centrocampista di sostanza, fu ucciso a 29 anni dalla pistolettata di un gioielliere: la storia dello scherzo della rapina ancora oggi non convince. Chinaglia è morto negli Stati Uniti nel 2012, a 65 anni. È sepolto a Prima Porta nella tomba di famiglia di Maestrelli, che da vivo l’aveva perfino ospitato in casa dopo alcune sgradevoli minacce di tifosi romanisti. Il figlio racconta che il Maestro si preoccupava che non si mostrasse alle sue sorelle in mutande. La sera fumava e beveva whisky, Giorgione. Dal 2022 nella tomba c’è anche il capitano Pino Wilson, anglo-napoletano di buona famiglia.
Nel 2023 è mancato a 68 anni Vincenzino D’Amico, il più giovane della Lazio scudettata, lo straordinario fantasista che disse “non volevo fare il calciatore, volevo fare il calciatore della Lazio” e infatti ci tornò in Serie B, negli anni 80, dopo il disastro del calcioscommesse. Chinaglia una volta gli diede un calcio nel sedere a San Siro, durante un Inter-Lazio: “Mazzola mi aveva fatto un tunnel e lui si era messo a ridere, già perdevamo due a zero e mi sono arrabbiato”, spiegò anni dopo. Dopo cinquant’anni il mito è lì, nulla lo può scalfire se non forse la retorica.