Mondo

Haiti, la crisi che il mondo ignora. La “paura” della vicina Repubblica Dominicana: “Deportazioni e un muro anti-immigrazione”

La Repubblica Dominicana si avvicina alle elezioni generali del 19 maggio con un tema su tutti al centro dell’attenzione, la crisi di Haiti, che è riuscita ad annullare le differenze tra i due principali candidati. Luis Abinader, attuale presidente, ha infatti annunciato di voler velocizzare la costruzione di un muro al confine con l’obiettivo di contenere l’afflusso di haitiani e di evitare una propagazione del raggio d’azione delle bande armate. Anche il principale sfidante, Leonel Fernández, la reputa “una necessità”.

Repubblica Dominicana e Haiti condividono l’isola di Hispaniola, a sud-est di Cuba, ma versano in condizioni economiche radicalmente diverse. Il Pil per persona dominicano è sei volte superiore a quello haitiano, 8700 dollari contro 1300, grazie soprattutto agli investimenti legati al turismo, uno dei settori trainanti dell’economia di Santo Domingo. L’omicidio dell’ex presidente haitiano Jovenel Moïse nel luglio del 2021 ha contribuito a peggiorare la situazione di un paese già traumatizzato dall’epocale terremoto del 2010, che provocò oltre 230mila vittime. Il governo ad interim di Ariel Henry non è poi riuscito a contenere l’espansione dei gruppi armati, che l’hanno costretto alle dimissioni, nell’attesa che un consiglio di transizione convochi al più presto nuove elezioni. La crescita della violenza anche al di fuori della capitale Port-au-Prince, ha portato allo sfollamento di 350mila persone e all’aumento della migrazione verso il vicino ispanico.

Da un sondaggio di Greenberg sul giornale Diario Libre emerge che il 62% dei dominicani reputa l’immigrazione un problema, mentre il 79% sposa in pieno la decisione di chiudere la frontiera con Haiti. Oggi nel paese vivono oltre un milione di haitiani, su una popolazione totale di 11 milioni di abitanti: “Il primo elemento che incide sull’opinione pubblica è quello della sicurezza legata all’espansione delle gang, poi c’è l’impatto della migrazione e l’effetto che può avere sull’economia, per esempio sul turismo”, dice Tiziano Breda, Associate Analysis Coordinator per l’America Latina dell’Armed Conflict Location & Event Data Project (Acled). Ma la promessa della costruzione del muro lungo i 392 chilometri di confine è già stata anticipata da altre misure, come l’aumento delle deportazioni forzate, che solo nel 2023 hanno raggiunto quota 225mila.

Tra loro c’è anche Rolandere Seraphin, un 28enne haitiano che lavora come elettricista e meccanico da quando ne aveva 14. Deportato per due volte, è tornato clandestinamente in Repubblica Dominicana dai suoi due figli, di cinque e sei anni. “La seconda volta ero in bicicletta. Un furgoncino mi ha toccato la gomma e sono caduto a terra. Poi una persona mi ha preso per il bavero. Pensavo volesse aiutarmi ma mi ha portato dentro. C’erano sei persone, tra cui due bambini”, racconta, “Non c’era acqua, né cibo, ora le deportazioni sono diventate più violente”.

Seraphin ha passato 18 anni della sua vita in Repubblica Dominicana, senza poter mai ottenere la cittadinanza. È il destino di tantissimi haitiani, soprattutto dopo la sentenza della Corte costituzionale che nel 2013 ha applicato retroattivamente a partire dal 1929 il ritiro della nazionalità per presunte irregolarità dello status migratorio, rendendo il paese caraibico la nazione con il più alto numero di apolidi di tutto l’emisfero occidentale. Una condizione definita da alcuni osservatori “genocidio civile”, a cui il processo di naturalizzazione avviato l’anno successivo non ha saputo porre rimedio. Il ministero dell’Interno dominicano ha poi continuato a negare il rinnovo del permesso di soggiorno a oltre 200mila haitiani, tra cui lo stesso Seraphin.

“Ci sono decine di migliaia di haitiani anche di seconda e terza generazione che tuttora non godono della cittadinanza e di pieni diritti. Sono quindi marginalizzati e in condizioni di vulnerabilità maggiore”, dice Breda. Lo dimostra un rapporto dell’associazione End Child Prostitution, Pornography and Trafficking, dove la Repubblica Dominicana risulta una delle principali mete per il turismo sessuale minorile, che coinvolge soprattutto haitiane tra i 15 e i 17 anni e attrae clienti anche dall’Italia. Molti altri sono destinati invece all’industria dello zucchero, sostenuta da un sistema di manodopera a basso costo basato sullo sfruttamento intensivo dei lavoratori haitiani, ricattabili per la condizione di clandestinità e il pericolo di espulsione.

Il 50% dei dominicani ritiene che Abinader, leader del Partido Revolucionario Moderno, sia il più indicato a gestire la questione migratoria. Ma la percentuale sale fino al 67% in alcuni sondaggi per le intenzioni di voto, risultato che favorirebbe una vittoria del presidente in carica al primo turno. Fernández, ex presidente per due mandati e capo di Fuerza del Pueblo, cerca di rincorrerlo promuovendo il ritiro dei visti e appoggiando la costruzione del muro, ma molti non gli perdonano di non averlo fatto in passato. “Qualche anno fa a molte persone non piaceva”, ha detto durante un evento pubblico.

“C’è un consenso nel non proporre delle politiche più propense all’accoglienza perché credo che a livello di opinione pubblica interna questo avrebbe delle ricadute sicuramente sfavorevoli a livello elettorale”, spiega Breda. Di fronte alle deportazioni forzate, la Repubblica Dominicana è stata criticata dalle Nazioni Unite per pratiche lesive dei diritti umani. Abinader però continua ad accusare la comunità internazionale di mancato supporto e rifiuta le richieste di allestire campi profughi sul territorio dominicano, sostenendo che Haiti possa utilizzare le isole di Gonâve e Tortuga. Nel frattempo, non appena il consiglio di transizione è subentrato al governo ad interim di Henry, gli Stati Uniti hanno ripreso i voli di rimpatrio verso Haiti, dove durante la presidenza di Joe Biden sono state deportate oltre 27mila persone.

Abinader ha promesso non solo di velocizzare la costruzione del muro al confine ma anche di terminarlo se dovesse essere rieletto. Un approccio che lascia senza speranze persone come Seraphin, costrette a stare sempre all’erta per la paura di essere nuovamente deportate: “Se uno può correre, corre. Ma ci sono situazioni in cui non puoi farlo. Nessun governo risponde per noi ed è anche per questo che con noi possono fare quello che vogliono”.