Molti quotidiani nei giorni scorsi hanno titolato “Eternit Bis, annullata la condanna (in Cassazione) tutto da rifare” a proposito del processo celebrato nel 2018 in primo grado a carico del proprietario dell’azienda di Casale Monferrato e in parte confermato in appello.

Meglio precisare che non è questo il processo Eternit-bis, in quanto limitato ad un solo caso di asbestosi, ma quello che si è celebrato in Corte d’Assise di Novara con la condanna in primo grado del 7 giugno 2023 per 392 tumori amianto-correlati, pressoché tutti di origine pleurica (mesotelioma), che non ha ancora raggiunto la Cassazione. Il timore è però che si giunga alla medesima conclusione.

Quasi tutte le sentenze di condanna emesse nei processi che hanno affrontato il tema del nesso di causa e della collegata responsabilità penale tra esposizione ad amianto, occorso nelle maggiori aziende italiane, e insorgenza di tumori sono state “cassate” dalla Cassazione, nonostante la conferma in appello, con il nefasto effetto retroattivo di inibire altri analoghi processi o di condizionarne a priori l’esito.

E’ ragionevole ritenere che il giudizio espresso da una sentenza passata in giudicato, cioè definitiva, sia tanto più robusto quanto più numerosi sono stati i giudici che sono intervenuti complessivamente nell’intero iter processuale attraverso i diversi gradi di giudizio. Quando però l’intero castello si regge su di un’unica sezione della Cassazione, la quarta, individuata come la più specializzata in una materia tanto complessa e per di più egemonizzata per effettiva maggiore competenza da uno o due magistrati, qualche perplessità sopraggiunge; ciò soprattutto quando le poche eccezioni che, per mere ragioni procedurali, sfuggono a questa logica di assegnazione cadendo quindi sotto la competenza di un’altra sezione, la terza, ottengono un risultato opposto, ossia di conferma della condanna d’appello.

Si tratta di processi in cui l’aspetto giuridico rimanda di continuo a quello scientifico e viceversa. E’ chiaro che sotto questa condizione il pensiero scientifico giochi un ruolo prevalente rispetto ad altre tipologie processuali, in cui l’apporto scientifico si esaurisce nell’oggettività della prova o nella sua ricerca, lasciando libero il campo alla dialettica giuridica per l’individuazione della responsabilità.

Nei processi d’amianto invece non è così, perché la diversa posizione scientifica pesa anche, e in modo determinante, nell’attribuzione della responsabilità.

La Cassazione giustamente invoca il ricorso alla posizione più ampiamente condivisa dalla comunità scientifica sul tema. In materia di cancerogenicità dell’amianto e dei meccanismi d’azione che sono coinvolti, le conoscenze sono ormai pari a quelle della radiazioni ionizzanti che la tragedia di Hiroshima e Nagasaki ci ha consentito di studiare in un’ampia popolazione esposta e per un tempo lunghissimo, oltre 70 anni. Quindi, si dirà, conoscenze consolidate. Certamente, però, la conoscenza scientifica, per definizione, non esige l’unanimità, anzi prevede il dissenso proprio per distinguersi dalla fede religiosa.

Accade però che la scienza sia anch’essa “secolarizzata” in quanto vive nel mondo e quindi ne sussume il condizionamento. E’ altrettanto assodato, senza scomodare gli economisti classici, che il potere politico-economico possa piegare la scienza ai propri interessi, anche se invero non per sempre, ma certamente quanto basta per raggiungere un risultato contingente. Nel caso dell’amianto è ormai dimostrato quanto ciò sia accaduto per il lungo tempo necessario a metabolizzare la rinuncia (per altro solo in Occidente) a questa pregiata materia prima e a trovarne accettabili sostituti tecnologici. Oltre trent’anni. Questa “proroga” è stata possibile perché alcuni ricercatori, anche molto competenti, non hanno resistito al canto delle sirene, pubblicando studi che continuamente instillavano il dubbio sulla solidità delle conoscenze acquisite, fintanto che non si è appalesato pienamente il loro conflitto d’interesse.

Questa dinamica si ripresenta nel momento in cui si tratta di salvare legalmente quella classe imprenditoriale che ha contribuito a fare la storia del Paese. E questo in parte è anche vero, ma questa “deroga” alla Giustizia non si può esplicitare, salvo violare il principio di uguaglianza della Legge. E allora entrano in gioco i vari Dottor Sottile delle consulenze tecniche di parte che evidentemente sono riusciti a toccare qualche corda più sensibile di altre a quell’esuberante garantismo (in dubio pro reo) rivolto agli imputati eccellenti a scapito delle vittime su cui si fonda la nostra Costituzione.

Ma qual è il concetto principe che i Dottor Sottile sono riusciti ad instillare nella coscienza di qualche giudice della Suprema Corte?
La cancerogenesi, cioè il lungo processo durante il quale uno o più fattori di rischio insidiano le cellule fino a trasformarle in killer dei propri organi di appartenenza, stabilisce che esiste un periodo di tempo, più o meno lungo a seconda del tipo di cancro, in cui quest’ultimo “c’è ma non si vede”. E’ cioè talmente piccolo che la diagnostica strumentale disponibile non è sufficientemente sensibile da coglierne la presenza nel momento esatto della sua insorgenza.

Quando però il tumore, pur rimanendo clinicamente silente, ha acquisito tutte le sue caratteristiche di malignità che lo fanno diventare appunto cancro, il prosieguo o meno dell’esposizione al fattore di rischio, nella fattispecie l’amianto, risulta indifferente. Raggiunto cioè questo vertice del processo di cancerogenesi, il cancro diventerebbe comunque clinicamente evidente a prescindere, come se poi semplicemente scivolasse lungo un piano inclinato. Ma se non sappiamo collocare questo momento preciso nella traiettoria sanitaria del lavoratore, come potremmo sapere qual è il periodo di esposizione ad amianto senza il quale il cancro non avrebbe raggiunto il vertice della sua corsa, cioè quello che precede il piano inclinato, essendo invece “inutile” quello successivo? Solo il primo è “causalmente efficiente” e solo di questo un datore di lavoro sarebbe quindi penalmente responsabile.

Ebbene, i Dottor Sottile sostengono che questo periodo possa essere individuato solo secondo probabilità ma non con certezza, quindi in dubio pro reo. E allora segue assoluzione. Però non è così, perché le conoscenze ormai pacifiche e ampiamente condivise della comunità scientifica ritengono che la forbice di questa incertezza probabilistica sia molto stretta e non possa quindi scorrere capricciosamente lungo l’intero asse del tempo. E’ infatti praticabile individuare con certezza l’intervallo temporale entro cui l’esposizione è stata efficace nel causare il cancro o comunque anticiparne l’insorgenza sottraendo anni di vita alla vittima.

La quarta sezione penale della Cassazione predilige la prima posizione, invece la terza opta per la seconda. E allora segue la condanna.

La persona sola al comando è sempre un maleficio, sia essa politico o magistrato. Siano quindi le Sezioni Unite della Cassazione a decidere.

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