Il cooperante gazawo Mohammed Al Majdalawi aveva piantato la tenda nella zona di Al Mawasi, sulla costa adiacente a Rafah, dopo essere riuscito a trovare un furgone per spostarsi con la famiglia dai quartieri orientali del campo profughi, sotto assedio continuo dell’esercito israeliano dallo scorso 6 maggio. Cinquecento euro totali di trasporto, a cui si sono aggiunte le spese per reperire un telone di nylon per isolare l’abitazione di fortuna dall’umidità e dal vento. “Questa notte non sono riuscito a dormire, le esplosioni dei bombardamenti erano troppo forti e ho dovuto tranquillizzare i miei figli”, racconta il cooperante di Acs-Associazione di Cooperazione e Solidarietà a Ilfattoquotidiano.it, smantellando nel frattempo la tenda per l’ennesima volta. “Abbiamo dormito sulla sabbia, satura di liquami e rifiuti di ogni genere – dice – Per la sicurezza dei bambini dobbiamo scappare di nuovo, c’è veramente troppa gente. Vivere così è insostenibile”.
Nei giorni successivi all’annuncio di attacco delle Forze di difesa israeliane (Idf), infatti, quasi 150mila persone sono state costrette nell’immediato a dirigersi a nord o sulla costa, affollando le strade e intere aree nei distretti di Khan Younis e Deir Al Balah, dove è stata indicata una “zona umanitaria sicura” in cui poter attendere, fino alla prossima operazione dell’esercito. Un numero aumentato ulteriormente nei giorni successivi, con l’annuncio di allargamento dell’offensiva ad altri quartieri di Rafah, in particolare nei blocchi di edifici di Al Adari, Al Jeneina e Khirbet Al Adas, come riportato sui volantini diffusi via aerea dalle Idf: “Facciamo appello alla popolazione di questi quartieri di evacuare immediatamente. In queste zone sono in corso operazioni terroristiche da parte di Hamas e altri gruppi. Ti trovi in una zona di combattimento pericolosa (…) Chiunque si trovi in quelle aree espone sé stesso e le proprie famiglie a grande pericolo”.
Oltre 300mila persone in tutta la zona saranno costrette ad abbandonare le proprie case nell’immediato, senza alcuna certezza per la propria incolumità nel prossimo futuro: “Definire sicurezza a Gaza è impossibile: i bombardamenti sono ripresi anche nelle aree di Jabalya e Beith Lahia, a nord, e hanno causato oltre 30 morti”, ha spiegato a Ilfattoquotidiano.it la responsabile della comunicazione di Unrwa a Gaza Louise Wateridge, impegnata nel supporto umanitario agli sfollati interni lungo le principali strade della Striscia. “Per alcune di queste persone è il settimo o ottavo spostamento, sempre in luoghi in cui non c’è alcun tipo di struttura in grado di ospitarli. Israele chiede lo spostamento di centinaia di migliaia di persone in un giorno, in posti dove non c’è possibilità di accesso a acqua o energia”.
Una fuga di massa destinata a coinvolgere gradualmente l’intera popolazione sfollata a Rafah, a pochi giorni dall’anniversario della Nakba (15 maggio), l’esodo forzato di 750mila palestinesi dai territori occupati avvenuto nel corso della prima guerra arabo-israeliana del 1948. L’incubo di chi da bambino l’ha vissuta sulla propria pelle, e che non avrebbe mai pensato di poterla rivivere da vecchio. A Gaza, infatti, le drammatiche immagini della “catastrofe” (tradotto dall’arabo) si stanno riproponendo inesorabilmente, con una violenza ancora maggiore rispetto al passato se si pensa che della Striscia, in questo momento, restano solo cumuli di macerie. Secondo le stime del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp), i costi di futura ricostruzione di Gaza arrivano a 40 miliardi di dollari, con il 57% degli edifici dell’intero enclave danneggiati o completamente rasi al suolo. Le immagini satellitari delle Nazioni Unite (UNOSAT) hanno mostrato come nella sola città di Gaza, che prima della guerra ospitava circa 600.000 persone, quasi tre quarti (74%) delle infrastrutture sono state danneggiate o distrutte. Un livello di devastazione senza precedenti, con 39 milioni di tonnellate di macerie da spostare e bonificare da possibili ordigni inesplosi, a cui si aggiunge un intervento di ricostruzione dell’intera rete fognaria e di trattamento delle acque, fuori uso già dalla fine dell’anno scorso a causa della mancanza di combustibile e dei bombardamenti. Secondo Undp, per completare l’operazione saranno necessari almeno vent’anni, con un calo del livello di aspettativa di vita di almeno cinque anni a causa dei gravi danni subiti dal sistema sanitario.
Condizioni estreme che hanno già spinto quasi 100mila persone a scappare da Gaza, come riportato dall’ambasciatore palestinese al Cairo Diab Allouh. Prima dell’occupazione del valico di Rafah da parte dell’esercito israeliano, infatti, molti cittadini della Striscia hanno deciso di scappare con le proprie famiglie in Egitto: una scelta sofferta e necessaria per garantire la sicurezza dei propri cari, con un prezzo elevatissimo a seconda dei numeri del nucleo familiare. Il coordinamento di queste operazioni, sotto il monopolio dell’agenzia egiziana Hala Consulting and Tourism Services del magnate Ibrahim al Organi, costa almeno 5mila dollari per adulto e 2.500 per i bambini sotto i 16 anni. Secondo le stime di Middle East Eye, elaborate dalle liste condivise dalla pagina Facebook della società, Hala avrebbe guadagnato circa 2 milioni di dollari al giorno, per un totale di 118 milioni solo nell’ultimo trimestre e quasi mezzo miliardo dal 7 ottobre. Somme altissime, irraggiungibili per la maggior parte dei cittadini gazawi, ricorsi a raccolte fondi indipendenti per poter garantire alla propria famiglia un biglietto di uscita: solo su GoFundme, sono oltre 12mila le raccolte attualmente attive a livello globale, con oltre 100 milioni di donazioni raccolti. Considerando che il nucleo familiare medio a Gaza è composto da 5,5 persone, la stima complessiva è di almeno 66mila persone solo per questa piattaforma. Chi è già riuscito a scappare, per tradizione, le chiavi di casa da Gaza se le è portate. Le stesse chiavi del ritorno tramandate dalle vecchie generazioni, nella speranza un giorno di poter tornare ad aprire la porta della propria abitazione. Per ora, però, su quella speranza incombe solamente l’ombra di una nuova, silenziosissima Nakba.
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Nella foto uno dei campi profughi in costruzione a Khan Younis, allestito da Acs, Centro di Scambio Culturale Vik e Gaza Freestyle