Lo studio sulla presenza nelle acque reflue “ci dice che il virus dell’aviaria è presente nelle feci, ovviamente, ma non sappiamo se provenienti da bovini o dall’uomo. Quello che mi fa pensare è che potrebbero essere bovini asintomatici e questo potrebbe essere peggio. Non è un buon segnale sapere che ci potrebbe essere questa possibilità” commenta all’Adnkronos Salute l’epidemiologo Massimo Ciccozzi. L’epidemiologia basata sulle acque reflue (Wbe) “è un buon indicatore”, afferma precisando che “in questo caso non c’è il virus intero ma pezzi di genoma virale o batterio, quindi chi fa le analisi deve essere esperto nel ricostruire il genoma del virus e identificarlo come tale. Va bene come tecnica epidemiologica per i virus espulsi con le feci”, conclude.

La circolazione del virus preoccupa anche perché dopo aver contagiato le mucche, l’aviaria negli Stati Uniti si sta diffondendo velocemente anche tra altri mammiferi e non solo: dagli scoiattoli alle puzzole e ai delfini tursiopi, fino agli orsi polari. “Nella mia carriera non ho mai visto un virus che espandesse la sua gamma di ‘ospiti’ in questo modo”, ha spiegato al New York Times Troy Sutton, un virologo che studia i virus dell’influenza aviaria e umana alla Penn State University.

Il braccio di ferro tra Cdc e allevatori – Tuttavia non si hanno dati sull’infezione umana, e i Cdc americani (Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie), sono in disaccordo con i funzionari statali e l’industria lattiero-casearia sulla risposta all’epidemia, complicando gli sforzi del presidente Joe Biden per rintracciare e contenere un virus che ha il potenziale per far ammalare milioni di persone. Molti agricoltori, infatti, non vogliono che i funzionari sanitari federali entrino nelle loro proprietà, mentre i funzionari statali dell’agricoltura temono che alcuni potenziali interventi federali minaccino di ostacolare le autorità locali che si affrettano a rispondere alle epidemie.

L’allarme sulla sottostima – “Se molti lavoratori delle aziende lattiero-casearie contraggono l’H5N1”, il virus aviario che circola tra le mucche in diversi stati Usa, “rischiamo una pandemia” commentano Jennifer B. Nuzzo, Lauren Sauer e Nahid Bhadelia, tre accademiche americane, in un intervento pubblicato sul Washington Post. Le misure “giustamente disposte” dal Dipartimento dell’Agricoltura per evitare che l’influenza aviaria si diffonda tra gli allevamenti bovini anche in altri stati del Paese, avvertono le tre esperte, “potranno ben poco contro la minaccia principale che l’H5N1 rappresenta per l’uomo: l’infezione dei lavoratori” delle imprese colpite. “La nostra incapacità di proteggerli”, ammoniscono, non solo “mette a rischio la loro salute”, ma “dà al virus l’opportunità di evolversi in” un patogeno che costituirebbe “un rischio maggiore per le persone, compresi coloro che vivono lontano dagli allevamenti”.

Nuzzo è docente di Epidemiologia e direttore del Centro pandemico alla Brown University School of Public Health; Sauer è professore associato all’University of Nebraska Medical Center dove dirige lo Special Pathogen Research Network, mentre Bhadelia, infettivologa, è professore associato, direttore e fondatore del Centro sulle infezioni emergenti della Boston University. Nell’articolo ricordano che ad oggi è noto soltanto un caso di contagio mucca-uomo nell’ambito dell’epidemia in corso tra i bovini statunitensi (il lavoratore del Texas che ha riportato una congiuntivite emorragica), però citano le dichiarazioni rilasciate dalla veterinaria Barb Peterson alla pubblicazione specializzata ‘Bovine Veterinarian’: “Ogni azienda con cui ho lavorato, tranne una, ha avuto persone malate nello stesso momento in cui aveva vacche malate. C’è stata una sottostima del virus” fra gli esseri umani.

Altri report dicono la stessa cosa, sottolineano le firmatarie dell’intervento sul Wp, e “questi rapporti sono preoccupanti non perché le infezioni siano gravi – precisano – ma perché qualsiasi incremento dei contagi umani aumenta le possibilità che il virus raggiunga qualcuno che soffre di altre malattie e che, se infettato, potrebbe subire conseguenze peggiori. E storicamente – rammentano – l’H5N1 non è stato lieve negli uomini: su quasi 900 persone che, a quanto sappiamo, sono state infettate finora nel mondo, il virus ne ha uccise circa la metà“.

Le misure da prendere – “La scoperta di materiale virale nel latte venduto nei negozi americani”, che ha spinto il governo federale a mettere in campo azioni più decise contro l’epidemia di aviaria tra i bovini, “di per sé non è allarmante”, rassicurano Nuzzo, Sauer e Bhadelia. “La pastorizzazione – confermano – sebbene non rimuova gli agenti patogeni, neutralizza la loro capacità infettiva”. Tuttavia il virus H5N1 comporta comunque “rischi per i lavoratori del settore lattiero-caseario, che potrebbero essere esposti alle mucche infette e al latte prima che venga pastorizzato”. Ecco perché “è fondamentale proteggere dall’esposizione i lavoratori che potrebbero entrare in contatto con animali infetti”, esortano le tre accademiche.

Le protezioni per gli occhi e le mascherine raccomandate dai Cdc“, suggeriscono, “dovrebbero essere prontamente disponibili per tutti i lavoratori del settore lattiero-caseario. Tutti gli stati hanno accesso a questi dispositivi, ma serve formazione per assicurarsi che le aziende li forniscano ai propri dipendenti e che il loro utilizzo diventi una routine”. Non solo: “Gli addetti del settore lattiero-caseario hanno bisogno anche di vaccini anti-H5N1“, sostengono le esperte. “Gli sforzi per renderli disponibili devono essere accelerati”, chiedono. “Le autorità sanitarie hanno affermato che il virus circolante negli allevamenti ha un buon ‘match’con quelli dei vaccini in sviluppo. Ma non sono stati chiari sulle scorte esistenti – osservano le specialiste – né su quando la Fda potrebbe autorizzarne l’uso”. “Come abbiamo imparato da Covid-19, ritardi nella vaccinazione potrebbero portare a morti evitabili”, rimarcano le docenti che sollevano anche un altro problema: “Poiché molti braccianti agricoli sono immigrati, è necessario lavorare per superare sia la diffusa mancanza di assicurazione sanitaria sia i forti disincentivi finanziari e legali a denunciare le infezioni”.

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